Gregory Peck, la luce oltre il cinema

Scomparso ieri a 87 anni, era un interprete capace di annullarsi completamente nel personaggio, e ancor di più di dare risvolti impensabili a storie e caratteri che sono luce, ma anche inquietanti coni d'ombra con cui fare i conti. Una invisibilità (e ambiguità) incredibilmente capace di materializzare il sogno dell'esserci dell'americano medio

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Giusto qualche giorno fa è stato reso noto che in seguito ad un sondaggio condotto su scala notevole, sembra che il personaggio più positivo della storia del cinema sia quello interpretato da Gregory Peck ne Il buio oltre la siepe. Non è mai facile leggere i sondaggi, né tantomeno i risultati, certo che stavolta ripensando al film di Mulligan e al suo magnifico interprete, non abbiamo avuto dubbi. Se il cinema americano (quello dei cosiddetti anni d'oro, quello della inquietante/sublime catena di montaggio del divismo) ha avuto i suoi eroi, certo è che fra questi Peck non sfigura affatto, anzi. Si tratta di rivedere gran parte del cinema classico d'oltreoceano, con uno sguardo che sappia rendere conto di presenze che monopolizzano la scena, il set, le svariate geografie di un universo che non conosce limiti, appunto perchè affiorante da regioni dell'immaginario. Gregory Peck (nato il 5 aprile del 1916 a La Jolla, località balneare dalle parti di San Diego) è stato questo, il lento venire alla luce di un tipo (innanzitutto fisico) capace di materializzare il sogno dell'esserci dell'americano medio, collocandolo su coordinate di sicuro ed immediato impatto visivo. Non stiamo parlando di un artificio finzionale (o meglio, non soltanto di questo), ma di un interprete che nel corso di cinquant'anni di carriera si è letteralmente fatto massa corporea a disposizione di dispositivi filmici rarefatti e perfetti (parliamo del cinema di Walsh, di Wyler e così via), sino ad incarnare non più soltanto un carattere, un tipo, un personaggio, ma una vera e propria idea di uomo, di corpo, di azione. L'opera di Mulligan prima citata ci va più che bene (esempio perfetto dell'occhio progressista, avanzato, moderno di un gran bel regista come Mulligan), ma si tratta solo della punta di un arabesco che Peck (primo attore della storia di Hollywood ad aver firmato quattro contratti con le major di punta degli anni Cinquanta) ha tessuto in opere anche misconosciute, emerse del tempo quali tracce di sintassi misteriose e irrisolte, sfuggenti e appunto indecifrabili. L'epidermica trasparenza del suo status quo attoriale è di quelle che non lasciano nemmeno il tempo di pensare, esposta com'è alla lucidità smagliante della luce (il suo ingresso nel salone da pranzo in Io ti salverò, con una Bergman stupefatta, ammaliata, affascinata dal farsi di un corpo luminoso, quasi esente da zone d'ombra), eppure c'è dell'altro.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Un annullamento all'interno dell'opera interpretata, e soprattutto l'azzerarsi di ogni soglia liminare tra un genere e l'altro, proprio perché la liquidità proteiforme e riconoscibile di un certo cinema non ammette isterisimi e gigionerie, ma controllo, concentrazione di intensità e scivolamenti da un set all'altro, senza soste. Quando in Duello al sole di King Vidor (opera mai troppo celebrata, vero e proprio incendio visivo che rimescola le carte impazzite di un mèlo a fior di pelle con un senso della visione da brivido) Peck si ritrova nel finale incantato con Jennifer Jones per raccontare ancora una volta come quello dell'amore e della morte sia un balletto di forme osmotiche e congruenti, abbiamo l'impressione che lo sbilanciamento repentino dell'attore americano su traiettorie arrischiatissime come queste, sia una sorta di preambolo (in realtà vera e propria altra faccia della luce successiva) alla doratura formale del possibile seguito. L'antieroe tutto pulsioni elementari messo in scena da Vidor e accarezzato dall'isterica partitura musicale di Tiomkin, in realtà non muore sulle montagne. Abbraccia la donna che ama, è vero, già questa è una possibile morte, fa poi esperienza del detour fatalistico a cui espone l'amor fou, per poi lievitare sul fuoricampo impossibile (segno del futurismo ghignante di Vidor) e riciclarsi in altri panni, all'interno di soggetti differenti. Come nel Caso Paradine (opera immensa di Hitckock, tutta giocata sulle ripetizione del dilemma morale e fiancheggiata da superfici assolutamente trasparenti, eppure ambigue) in cui Peck si trova a proteggere una donna accusata di avere ucciso il consorte, di cui non può mancare di innamorarsi. Ecco allora una prima definizione, un primo appiglio e vero e proprio smascheramento: se abbiamo detto che il primigenio Peck di Vidor non è morto, ciò significa chiaramente che bisogna cercarne tracce anche all'interno di personaggi totalmente differenti. Ci pare che il film di Hitchcock faccia al caso nostro, anche perché puntella di sano squilibrio formale un edificio in cui Peck comincia ad abitare stabilmente. Se infatti Duello al sole rappresenta l'individuazione di un corpo allo stato ancora selvaggio (troppa luce disorienta e produce lo svelamento di pulsioni elementari e sanguigne), ora Peck deve per forza di cose confrontarsi con l'inserimento all'interno di regole ben precise. Anzi, di più, è per certi versi tenuto a rispettare le regole del buon vivere sociale, e nondimeno a giocarci proprio in funzione di una precisa contropartita (fa infatti parte del suo essere avvocato la pratica del gioco con vari meccanismi di difesa). Quando però si tratta di prendere le difese di un corpo da cui si è attratti, non esiste controllo che regga.

Ci siamo dunque: Peck appare qui nei panni assolutamente ordinari dell'avvocato con moglie a carico, pronto però ad assaggiare l'autodistruzione a cui lo conduce l'angelo dannato incarnato dalla Valli. Il suo è dunque un corpo duplice, sdoppiato, ambivalente: da un lato portato a rispettare le leggi, l'ordine, l'iter consuetudinario, dall'altro invece incapace di resistere alla tentazione rappresentata dalla vicinanza di un corpo corruttore, richiamato a gran voce da una meccanica istintuale che va crescendo, sino a raggiungere punte torride di trasgressione (le sequenze tra la Valli e Peck in carcere sono davvero tra le cose più forti girate dal regista inglese, se non altro per l'intensità di primi piani che stravolgono letteralmente ogni contorno). Quello di Peck è chiaramente un corpo mai interamente posseduto da un solo set (in Passione selvaggia di Korda, ingaggia un duello d'amore con Joan Bennett sotto gli occhi del marito, ma ci troviamo lungo un safari in Africa, dove la carnalità della passione non conosce appunto confini, proprio perché infinita), ma incline alo spostamento, al nomadismo, al girovagare ininterrotto. Esempio affascinante di questa pratica si ritrova ne Le avventure del Capitano Hornblower di Raoul Walsh, incredibile messa in subbuglio di ogni coordinata geografica che si rispetti, e decentramento di ogni costante narrativa all'insegna di un avventura (capitanata da un Peck desideroso di nuovi spazi da colonizzare) che non ha pause di nessun tipo. Lo stesso meccanismo in fondo che regge Il grande paese di Wyler, in cui Peck si avventura in uno spazio nuovo per lui (quello del polveroso West) e dà avvio ad una serie di peripezie drammaturgiche che anche stavolta non possono non terminare con lo scombussolamento dei valori impostati ad inizio opera (in effetti il suo protagonista finisce per non sposare la donna a cui era promesso, ma una maestra del luogo, e giunge a rompere la faida dei due clan con un'azione a dir poco eversiva), e con un cambiamento in corsa che rivoluziona l'asse portante del set (l'estraneità di Peck al luogo, si trasforma in adattamento coatto sempre però intercalato da ragioni fisiche e passionali). Sono proprio le ragioni del contatto fisico, dell'erotismo sensuale a contrassegnare l'agire di Peck (ne Le nevi del Kilimangiaro, mentre si trova in punto di morte, non può non riandare con la mente al ricordo del suo passato d'amore con l'unica donna che abbia mai amato in vita sua, in La donna del destino di Minnelli, pur calato nel contesto del perfetto classicismo del regista, riesce comunque a rappresentare bene lo spirito di un giornalista sportivo del tutto estraneo alla meccanica passionale ed emotiva della compagna che fa la disegnatrice di moda), anche se in certi casi si tratta di una tendenza mutata di segno, che lascia posto a dinamiche di altro tipo.

Nell'interessantissimo Promontorio della paura di Jack Lee Thompson (rifatto poi da Scorsese nei primi anni Novanta) infatti, Peck rappresenta l'ordine, la tranquillità borghese, il sereno acquietarsi di ogni stimolo all'azione. Quando però Max Cady (un eccezionale Mitchum) mette a repentaglio la sua situazione familiare, Peck (anche qui avvocato) si trasforma in vorace difensore di un ordine che appare ormai acquisito: ha una moglie, dei beni da difendere, e una situazione economica da mantenere. Dunque si tratta di un percorso inverso rispetto a quello agito precedentemente, visto che la frontiera è già stata superata e per certi versi abitata. E quando Peck tornerò nel remake di Scorsese, per uno strano gioco del destino sarà proprio lui a vestire i panni del difensore di Cady (lo strepitoso de Niro), quasi a voler chiudere un cerchio di referenzialità sempre tessute sul limite della distanza, e del riavvicinamento. Sono in fondo gli stessi termini che conducono al teatro della crudeltà messo in piedi da Frankeinheimer per il suo Uomo senza scampo, in cui Peck (è uno sceriffo) si innamora di una ragazza molto più giovane, figlia di un contrabbandiere. Non c'è del reale sentimento nella ragazza, ma soltanto la consapevolezza di poter sfruttare l'uomo. Siamo già all'interno degli anni Settanta, e quello a cui è esposto Peck è un contrappasso che non può non lasciare il segno. E' come se infatti il suo personaggio volesse improvvisamente arenarsi su posizioni definitive (nell'opera di Frankeinheimer in fondo vorrebbe soltanto provare l'ebbrezza di amare una donna al di fuori di ogni convenzione, così anche come nel Solitario di Rio Grande è in cerca di una vendetta finale messa però in forse dalla presenza di una ragazza di cui potrebbe essere il padre), cullandosi in un limbo emozionale finalmente statico che gli viene però di volta in volta precluso. Non è un caso che in Ritratti (uno dei Penn più intensi, un riepilogo lancinante di tutto il suo cinema degli anni Sessanta) compaia affianco a Lauren Bacall (sua partner in La donna del destino) e alla figlia Cecilia, quasi a voler chiudere dolcemente un cerchio di rimembranze e di affetti, che riaffiorano paradossalmente per l'ultima volta in un ritratto di famiglia chiuso in sé, cristallizzato in una forma stavolta terminale in cui il "buono" di Hollywood pare trovare una naturale collocazione. Dentro il cinema, ai margini del quadro.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative