Hammamet, di Gianni Amelio

Craxi l’Innominato, in un deserto di miraggi, di apparizioni, nel tempo assurdo di un esilio. Amelio sembra raccontare non la Storia compiuta, ma l’inesorabile dissolversi di ogni storia

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E se… nonostante tutto?

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Certo, Amelio non è Bellocchio, non ha l’impeto per squarciare la Storia e mandarla in frantumi con la forza eversiva dell’immaginazione. No, la Storia sembra restare là, tetragona, inscalfibile e, quindi, incomprensibile. Un po’ come quella piramide multimediale di Panseca, monumento faraonico che avrebbe dovuto celebrare le meravigliose sorti del congresso PSI alle fabbriche Ansaldo di Milano, maggio ’89. Esempio manifesto di come il discorso politico si muova nell’ordine dei simboli. Bellocchio l’avrebbe fatta esplodere quella piramide, forse. Amelio si accontenta di mandare in frantumi i vetri di un collegio con un tiro di fionda: mettere in discussione e rompere, in fondo, non sono altro che monellate, da ricordare con la nostalgia di un amarcord e da punire, al massimo, con un tappeto di ceci su cui inginocchiarsi. Amelio non attacca il potere del simbolo, non lo smaschera né lo sovverte. Si limita a registrarlo, come un dato di fatto. Come un dato della Storia, appunto. Quell’entità liscia e respingente, chiusa nell’impenetrabilità pietrificata dei fatti e degli accadimenti, è vista solo in superficie, è questione di aneddoti, una trama inestricabile di storie da raccontare. Non è un caso che alcuni dei più celebri episodi della parabola politica e umana di Craxi possano rivivere solo attraverso una narrazione, fuori da qualsiasi possibilità di re-visione: il braccio di ferro della crisi di Sigonella diventa un gioco di soldatini del nipote “generale garibaldino”, il lancio di monetine all’uscita dell’hotel Raphael, forse il più teso e furioso momento di indignazione popolare della stagione di Mani Pulite, viene quasi doppiato nello scontro tra il Presidente e un gruppo di turisti sulle spiagge di Hammamet. Del resto Amelio sa bene che si tratta di fatti che dovrebbero appartenere alla dimensione dell’immaginario collettivo e quindi, in qualche modo, della leggenda: circolano allo stato gassoso tra i nostri ricordi e le nostre conversazioni e non hanno perciò la necessità di essere “rifatti”, ricreati, rimessi in scena.

Sì, è vero che la nostra memoria collettiva è corta, a breve termine. Per cui, magari, certe cose dovrebbero essere ripetute in loop, come in un’impossibile e tremenda “cura ludovico” (il discorso della vedova dell’agente Schifani ne Il traditore… “ma loro non cambiano”). Ma è pur vero che la leggenda e l’immaginario abitano il quotidiano. Per cui non è tanto importante il fatto che il film sia attraversato da tutta una serie di citazioni, Là dove scende il fiume, Le catene della colpa, Secondo amore. Quanto il modo, quasi inavvertibile, in cui quelle immagini si riflettono nelle foto di famiglia, sul tavolino accanto al divano: si mescolano agli istanti del vissuto, si confondono con la normalità silenziosa e deprimente di una coppia in silenzio davanti alla TV, col chiacchiericcio irrisolto dei talk show politici. Ogni cosa si normalizza, per Amelio, e perciò perde la capacità di distinguersi, di staccarsi dal flusso indistinto delle cose per svelarne un senso ulteriore. E se, nonostante tutto, fosse questo il segreto del film? Riconoscere la normalità di un uomo a suo modo “straordinario” e riconoscerla nel suo fallimento, nell’ineluttabilità della malattia, nell’impotenza a dar corpo ai sentimenti, nell’incapacità di comprendere e farsi comprendere, al di là della dittatura bulgara del consenso. Ma non solo…

Hammamet costeggia molte delle forme in cui si è data, fino ad oggi, la tradizione italiana del cinema politico (se l’attributo ha davvero un valore): l’allegoria, la parabola, la deformazione grottesca, la satira. Amelio prova a tener fede alle intenzioni di un estro visionario, ma nei momenti in cui vorrebbe lasciarsi andare a briglia sciolta nel fantastico rimane vittima dei simboli, dei significati programmatici della scrittura. Non sembra aver tra le corde questi registri, per questo li manca tutti. O meglio, quasi li abbandona, come se li riconoscesse una zavorra necessaria solo all’inizio, per guadagnarsi un diritto di cittadinanza in un certo tipo di discorsi e di narrazioni. Quel che conta, si dirà, non è il giudizio storico politico, è il disegno di un personaggio, questo Craxi Innominato, la trama di relazioni che stabilisce con chi lo circonda, più o meno reali, più o meno immaginarie. Le paternità vere e putative, tutte ricercate, tutte in qualche modo disattese. Ma anche questo aspetto passa in secondo piano. Le possibili dinamiche da tragedia shakesperiana, thriller o western, come piace dire ad Amelio, valgono solo come traiettorie drammatiche temporanee, fragili. Al punto che la maggior parte degli incontri durano il tempo di una sequenza e si può sparire tutt’a un tratto, tra le sabbie del deserto, come in un’avventura antonioniana.

Tutto, in fondo, sembra non necessario, marginale, accessorio. Come in un deserto di miraggi, di apparizioni, nel tempo assurdo di un esilio. “La villa è bella, ma niente di eccezionale, troppo lontana dal mare”, dirà democristianamente Renato Carpentieri. Ma è proprio in questo lembo di nulla, in questa dimensione sospesa ed esotica che vive il cuore del film, tutto il suo fascino strano, in cui ritroviamo solo segni di un disfacimento progressivo, un uomo spiaggiato, solo, malato, straniero, che cerca disperatamente di trovare un formato (di pasta?) per raccontare la sua verità… Ma quale verità? Il make up mimetico a cui si sottopone Favino non è solo un tributo pagato alla tentazione del realismo, è qualcosa oltre, è il trucco che seppellisce l’uomo, la maschera ingombrante del personaggio pubblico, “storico”, che copre la dimensione più profonda. La Storia maschera. E la verità è un’utopia che viene fuori solo a barlumi, per lo sforzo improbo di un’interpretazione che non sia solo uno sfoggio di bravura (ed è qui che Favino è davvero straordinario, per come “si tradisce” e non per come assomiglia…). Alla fine, è come se non rimanesse nessun Craxi, storico, politico, reale o inventato. Rimangono attimi, pulsioni, gesti, parole, immagini, quindi fantasmi. Poi il buio. Amelio ci smentisce: perché sembra raccontare non la Storia compiuta, ma l’inesorabile dissolversi di ogni storia. E la nostra incapacità a farcene una ragione.

 

Regia: Gianni Amelio

Interpreti: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Giuseppe Cederna, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese

Distribuzione: 01 Distribution

Durata: 126’

Origine: Italia, 2020

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.21 (19 voti)
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