"Hanna", di Joe Wright

Joe Wright non ha l'umiltà per affrontare un prodotto di genere puro e semplice, né il coraggio e la follia necessarie per trasformare un pessimo copione in un film gioiosamente folle e delirante: scegliendo di giocare la carta dell'autorialità, costruisce un monumento al ridicolo involontario che si perde tra la pesantezza dei propri simbolismi. E in questo fallimento d'autore, la sospensione dell'incredulità diventa oggettivamente impossibile

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Nel momento in cui si spengono le luci e comincia lo spettacolo, la sospensione dell'incredulità è la prima cosa che si chiede allo spettatore: se si rifiuta ciò, si può benissimo fare a meno del cinema e rimanere con i piedi ben piantati per terra. Guardando la televisione magari, dove ci attendono orrori ben più concreti e reali. Se infatti riducessimo il tutto sempre e soltanto a una questione di sceneggiatura, si potrebbe tagliare corto e liquidare Hanna in poche parole, tante e tali sono le scempiaggini di scrittura che lo caratterizzano: è mai possibile che una ragazzina cresciuta in una foresta sia in grado di tagliare capelli neanche fosse una parrucchiera? O di svolgere una ricerca su internet pur non avendo mai visto un computer in vita sua? E come fa Cate Blanchett a correre, inseguire e sparare senza mai togliere i tacchi? Per non parlare poi dei naziskin che non vedono a un palmo dal naso, del clown nella casa dei Grimm e di tanto altro ancora: questi sono alcuni esempi, la lista volendo potrebbe essere molto più lunga. Però soprassediamo volentieri, perchè del resto – ci ricorda Godard – la sceneggiatura è dalla parte dei padroni. Il problema purtroppo è che, tra tante digressioni, in Hanna manca del tutto una visione d'insieme delle cose: da uno script totalmente inverosimile, poteva infatti nascere un film altrettanto libero, folle e anarchico (chi mai si è preoccupato di prendere sul serio i copioni di alcuni dei film più deliranti di un Miike, per esempio?). Se Joe Wright avesse preso maggiormente di petto la sceneggiatura di David Farr e Seth Lochhead, abbracciando con coraggio e senza patemi d'animo il kitsch puro e semplice , portando tutto all'estremo, sarebbe riuscito a fare un gran film. O quantomeno un film migliore. E invece commette l'errore più grande, quello cioè di prendere le distanze dal genere (per paura di sporcarsi le mani?) e di inseguire l'autorialità a tutti i costi, con il risultato quindi che così il ridicolo involontario regna sovrano. Siccome la struttura portante è quella della fiaba, Wright sgombra il campo da eventuali equivoci e, per evitare che qualche spettatore sprovveduto possa non comprendere l'alto livello di questa fine operazione intellettuale, mette nero su bianco tutti i riferimenti possibili tramite un eccesso di simbolismi che sconfina nella pedanteria: Hanna viene cresciuta e addestrata in una casetta nel bosco, è minacciata di morte da una strega più cattiva di quella di Biancaneve, affronterà l'inevitabile resa dei conti nel parco dei fratelli Grimm di Berlino e così via… Capito bene? In più, non mancano neppure ripetuti sfoggi di tecnica che vorrebbero essere scambiati per stile, ma che in realtà non dicono assolutamente nulla, come i controcampi “sbagliati” nella sequenza del bacio lesbico o il piano sequenza di Eric Bana che esce dalla stazione e raggiunge la metropolitana: bello, certo, e tecnicamente ineccepibile. Ma cui prodest? Un fallimento “d'autore” che ricorda, per portata e sprezzo del ridicolo, un altro incredibile tonfo della stagione passata: The Tourist di Florian Henckel von Donnersmarck.

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Titolo originale: id.

Regia: Joe Wright

Interpreti: Saoirse Ronan, Eric Bana, Cate Blanchett, Tom Hollander, Michelle Dockery

Distribuzione: Sony Pictures Italia

Durata: 123'

Origine: Usa, Gran Bretagna, Germania 2011

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