#HarveyWeinstein. La ritualistica del potere

Ad una settimana dal #Weinsteingate proviamo a ragionare sul comportamento ritualistico del magnate e su quanto il potere si forgi su un web di sterminati filamenti.

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“L’industria giornalistica è in crisi”- “Esiste ancora il giornalismo!?” e per estensione, buttando un occhio al nostro orticello: “Ha senso parlare di critica?”. Parallelismo idiota, superfluo, banale, tanto quanto la frase del nonno: “Non ci sono più le mezze stagioni”, degna di un’ottima pagina su Facebook dove alcuni dinosauri spaziano fra i maggiori luoghi comuni. Ma la leggenda e il desiderio di un collasso del quinto potere viene disseppellita in occasioni speciali: tranquillità per il celeberrimo “establishment”, velleità scrittorie, divulgative, informative di chiunque possieda un dispositivo elettronico, necessità, più in generale, di silenziare l’intruso ficcanaso che in questo nuovo secolo potrebbe anche essere un bambino, che gioca con il nuovo tablet, e dimostra una certa curiosità per lo svelamento.

Nell’ultimo anno la febbre belpaesana per il giornalista=cerchio rosso delc_fit,fl_progressive,q_80,w_636

bersaglio è cresciuta parecchio. Pensiamo allo scandalo Consip, quindi alle ospitate televisive e agli articoli dei “bravi” giornalisti che proprio non potevano tollerare che un’inchiesta venisse a galla senza i paradigmi del caso. Noi italiani, forse più di altri, siamo avvezzi alla favola della buona notte televisiva, una TV, che a differenza di molti altri paesi civilizzati, fa inchino e riverenza all’istituzione di turno. Quindi lo schiocco di lingua verso il pollice in basso al reporter “col naso di Pinocchio” non ci crea né sorpresa né disgusto. Eppure sappiamo che dal ’92 qualcosa è cambiato. Perlomeno i media hanno scorrazzato con più libertà, e la pulce nell’orecchio, almeno nell’opinione pubblica, ha visto l’evoluzione in elefante con l’epico Bunga Bunga. Ed è il Cavaliere che fa capolino in queste ore, almeno nelle menti di alcuni giornalisti. Il suo harem sconfinato, una Babilonia di iniziate, pseudotali, affermate, magari addirittura chief mistress, hanno percorso le passerelle dei Palazzi di Giustizia non troppo tempo fa.

Bisogna ammettere che i pioli della scala non sono stati troppo scivolosi per certi coinvolti, e le eyes2tante bramose di vedere, almeno una volta, il Paradiso della Videocracy. Però, più che le varie testimonianze, protettive e non, della condotta di Silvio & Co., l’occhio è più taletiano che altro, mira al cielo, insomma alla vetta. E allora come non riflettere sul dominio, sul consiglio di amministrazione di una rete che coinvolge molti più esseri umani che l’ex Presidente del Consiglio. Massoneria, P2, tutti nomi che riecheggiano quando gli ingranaggi dell’autocrazia si inceppano e il giornalista non è più “nato nell’epoca sbagliata”. Un ammasso nebbioso, fluttuante, ermetico e mastodontico. Come non pensare all’ incubo ad occhi aperti di Eyes Wide Shut?

Any news organization that goes up against the protection racket has to be ready for a fight and has to have enough confidence in its reporting to face down a possible lawsuit”. Le parole di Jim Rutenberg, articolista del New York Times, giungono a circa una settimana dal #Weinsteingate. Harvey Weinstein, fondatore, assieme al fratello Bob, dapprima della Miramax e poi della Weinstein Company, dalla quale ha ricevuto il benservito lo scorso venerdì, dopo una decisione unanime di Consiglio, cui partecipava anche il fratello, è stato accusato ormai da un paio di dozzine di attrici, modelle, assistenti ed executive di presunte molestie sessuali. Accuse respinte energicamente. Dopo una dichiarazione iniziale in cui ammetteva un comportamento per così dire inappropriato con alcune colleghe, Weinstein le-rivelazioni-di-asia-argento-su-weinstein_1623325

ha tirato la cerniera, ha iniziato una “riabilitazione cognitivo-emotiva”, deve riallacciare e consolidare il ruolo di pater familias, insomma dopo trent’anni di presunti, ribadiamolo, massacri fisico-psicologici, a quanto pare, ad una nutrita schiera di giovanissime, necessita una pausa dalla limelight. Fra le accusatrici, davvero tante, spicca il nome di Asia Argento, l’attrice e regista figlia del Maestro Dario. A ventun’anni, come riporta l’intervista sul New Yorker, ben 8.000 parole brillantemente riunite da Ronan Farrow, a seguito della prima fonte d’accusa, il Times, Asia ricorda l’accaduto. Venne invitata ad una festa, un escamotage, per il lancio di un film hollywoodiano cui prese parte, B. Monkey. Alla serata presenziavano solo lei e Weinstein, dopo l’abbandono di un accompagnatore. Fu forzata ad una pratica di sesso orale passivo, terrorizzata che il produttore, in caso di rifiuto, scagliasse un masso, assestandolo, su una promettente carriera oltreoceano. L’attrice ammette di aver continuato a vederlo, di aver addirittura iniziato una relazione, ma solo perché profondamente spaventata dalle conseguenze del no. Il suo racconto, e potremmo citarne tantissime altri, è sovrapponibile, in maniera quasi tragica, ai discorsi di tante altre adescate. C’è un’infernale ritualistica nella gestualità del produttore, come se non solo ne avesse appurato l’efficacia, ma avesse dovuto perpetrarla, pena una piaga sulla sua persona e, ben più importante, sul suo personaggio. Rituale: eucaristico, quindi sacramentale, religioso in senso lato, magari pagano, magari associativo, o meglio prassi di un’associazione, per non dire istituzione, establishment. Ogni cerchia, schiatta, possiede e ha goduto dall’alba dei tempi di proprio e personalissimi schemi comportamentali. Se 1280_affleck_weinstein_GettyImages-116895974pensiamo alla religione, il rituale scongiurava l’influsso dell’alterità sul mondano, quindi una via di conciliazione, pacificazione con entità assetate di interventi sul nostro mondo. Senza sbilanciarci in dissertazioni sull’antropologia religiosa, possiamo dire che le griglie di Weinstein sono preoccupanti anzitutto per la loro ripetitività (caviale, champagne, accappatoio, olio per massaggi…). Non serve dimostrare compassione per le sue vittime, cosa più che ovvia. Se quelle azioni sono state commesse, e ripetiamo che i capi d’accusa non si contano su una sola mano, non basterebbero diecimila articoli di linciaggio. E in effetti chi al momento difende il magnate sembra scavarsi a mani nude una fossa nella fossa dei leoni, vedi il Premio Oscar Ben Affleck.

Visto l’andazzo, è intuibile che ci siano ancora corposi filamenti ad essiccare (il Guardian sta tenendo il conto delle allegations). Il sole è comodo, permette il lavoro nell’industria più glamour del pianeta, però è anche vero che un discorso su morale e giustizia non ci faccia eccessivamente schifo. La digressione su società e ritualistica non è stata casuale. L’impero costruito e conquistato da Weinstein ha ingigantito una goccia d’olio a status di galassia. Sarebbe impossibile raccogliere testimonianze, connessioni, collusioni, perché l’operato pare procedere da tre decadi. Tempo utile per un’impalcatura a tela di ragno, quasi un web in carne e ossa fatto di server maggiori, casa/e di produzione, minori, forse registi, browser, quindi cercatrici di talenti, e una moltitudine di siti disponibili, non disponibili, da chiudere in fretta, popolati da chiunque fosse, sia, legato a questo mondo, o meglio, volesse disperatamente esserci. Le piramidi gerarchiche nascondono la punta al sole, dove esiste l’abbaglio, e infatti sembra proprio che pettegolezzi sulla condotta di Bob circolassero da parecchie lune. Ma proprio quelle facce geometriche sono ripide, senza appigli, hanno bisogno che qualcuno dall’interno tenda una mano. Però non è facile. Riflettiamo un momento sullo spunto, letterale e non, di realtà elitarie da cui è impossibile uscire, di aristocrazie mistiche, in cui il dittico “spiritualità”-celebrità è solo un singolo mascherato. Forse gli stessi casi Bill Cosby, Roman Polanski avevano a che fare con un sistema tanto radicalizzato da essere normalità. Una civiltà dell’abuso dove il corpo è una semplice pedina da muovere fra altre pedine svestite, e avanzabili, retrocedibili, insomma spostabili a piacimento di (non) sappiamo chi.

Ci piaceva iniziare il racconto sul produttore con una frase di Rutenberg, che in qualche modo riassume la presente condizione del giornalismo a fronte di certe storie. Nel pezzo completo, è possibile scorrere un elenco assortito di molti reporter che prima dell’inchiesta del Times avevano provato ad aprire il sipario, ma per un motivo o per un altro, ne sono stati dissuasi. Si legge anche di una pratica frequente, cui è stata costretta anche Ambra Battilana Gutierrez, ex concorrente di Miss Italia. Dopo il resoconto del suo rendez-vous col produttore, sovrapponibile alle altre decine attualmente a galla, la modella rilasciò, nel 2015, una dichiarazione alle forze di polizia. Weinstein venne coinvolto, il suo interrogatorio fu registrato, c’era abbastanza carne sul fuoco, ma i filamenti cui facevamo 150331-Nadeau-weinstein-victim-tease_qk3worriferimento, in questo caso tabloid autorevoli, sciorinarono nel dettaglio un passato “scabroso” di Gutierrez e la sua affidabilità venne messa a repentaglio. Da qui, la giovane firmò un accordo di non divulgazione e un affidavit che quanto espresso da Weinstein sulla registrazione non era mai stato proferito. Nell’articolo di Rutenberg si comprende quanto difficile sia la lotta, quando anche chi dovrebbe, per mestiere, un mestiere che dovrebbe richiedere una vocazione, viene attratto dalle luci delle premières, dalla vicinanza con le star, dalle cene, dalle feste. Quanto il mezzo economico conti in misura altissima, e le conoscenze con i legali, favorevoli a scambi che garantiscono all’imputato un mantello dell’invisibilità sempre legato al collo. Parlavamo di impero perché l’estensione è gigantesca e bisogna ammettere, a capo chino, che non basterebbe un quotidiano intero per gettare una luce sufficiente sul tutto.

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