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Hedda, di Nia DaCosta

Non si pretendeva l’accanimento filologico ma fare del dramma ibseniano un melodramma queer tutto isteria e sesso scavalla la rilettura modernista. #RoFF20. Grand Public

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Cos’è che muove un personaggio? Cosa lo rende drammaturgicamente essenziale e memorabile? L’eccesso di motivazioni equivale, come dice un noto detto da bignami di sceneggiatura, davvero alla sua assenza? In Hedda l’adagio conferma tutta la sua possanza: la ricchezza psicologica di cui viene investita la sua protagonista si disperde infatti, nelle quasi due ore di durata, in mille rivoli che fanno del suo forsennato agire una congerie caratteriale di impossibile empatia, sia negativa che positiva. Tratto dal dramma Hedda Gabler di Henrik Ibsen, il quarto lungometraggio della regista statunitense racconta di Hedda (Tessa Thompson, sempre bravissima ma fin troppo compiaciuta del suo woman one show), appena trasferitasi in una vasta tenuta con il suo nuovo marito, l’accademico George (Tom Bateman). I due coniugi, appena tornati da una lunga luna di miele, organizzano una festa luculliana per cercare di scalare la piramide sociale del rigido ambiente aristocratico a cui appartengono e permettere così al pavido marito di ottenere la prestigiosa cattedra per cui è in corsa. Ma quando la rivale per l’assegnazione di quel posto si rivela essere Eileen Lovborg (Nina Hoss), in passato scatenata amante di Hedda ma attualmente impegnata in una dolce relazione con Thea (Imogen Poots), alla rampante figlia bastarda del generale Gabler toccherà mettere in atto un piano diabolico per cercare di rinsaldare il suo sempre fragile status sociale.

In Hedda, Nia DaCosta compie un’operazione per certi versi schizofrenica: da una parte cerca di dar forza all’ordito drammaturgico creato oltre un secolo fa dal celeberrimo drammaturgo norvegese conservando l’acutezza spietata di questo ritratto di donna arrivista e manipolatrice ma dall’altro si ha l’impressione che non si fidi pienamente del meccanismo narrativo che dava forma all’originale.

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Se il cambio di ambientazione, dall’Oslo del XIX secolo all’Inghilterra del Novecento (scontato però il facile e rozzo approccio statunitense all’etichetta britannica: l’accento di Hedda è davvero macchiettistico), e il gender swap del fedifrago interesse amoroso si rivelano buone scelte di scrittura, funziona poco e male, invece, l’accumulo caotico di modernismi in un materiale, chissà perché, avvertito evidentemente come polveroso. Sessualità spinta, giochi di potere, di genere e razziali, anarchia caratteriale simil-gansta (“Faccio le cose all’improvviso, per capriccio“, spiega fin troppo chiaramente la stessa protagonista), spleen malinconico e sociopatia esibita (e quindi posticcia), rendono Hedda una figura vacuamente complessa. DaCosta si fa prendere allora dalla bulimia reinterpretativa e resta intrappolata nell’evidente tentativo di ascrivere alla galassia femminista un bel personaggio che scontava però il peccato originale di essere stato scritto da un uomo. Ma se il risultato di questa battaglia sacrosanta deve essere una patinata e, in fondo, mai scandalosa farsa in costume, paradassolamente sarebbe risultata più provocatoria la più pedissequa delle trasposizioni. In fondo, è più difficile calarsi in una donna che agisce in un diverso contesto socio-culturale che riscriverla ad uso e consumo degli utenti da piattaforma.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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Il voto dei lettori
2 (4 voti)
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