Here, di Robert Zemeckis
Trent’anni dopo Forrest Gump, il regista riunisce Tom Hanks e Robin Wright per un nuovo “ritorno al futuro” del suo cinema che cerca ancora ostinatamente di mappare il qui e ora.
Un medico convoca il suo paziente: “ho una notizia buona e una cattiva per lei. La buona è che le restano 24 ore di vita”. “Ah!”, fa l’uomo. “E la cattiva allora?” “Eh, avrei dovuto comunicarglielo ieri…”
Ti trovi qui
Come spesso accade con Robert Zemeckis, un suo film pone una questione filosofica già a partire dal titolo dell’opera: here, qui. Si chiama così anche la splendida graphic novel di Richard McGuire alla base dell’operazione, ma il “qui” disegnato su carta assume (almeno) una coordinata in più quando viene trasposto al cinema, che è il tempo, il movimento, il divenire, l’ “adesso”. Hic et nunc, qui e ora. Le coordinate del cinema di Zemeckis da sempre, d’altronde, unite all’ossessione sempre viva di catturare “a vista” le mutazioni che avvengono ai corpi e alle cose durante la loro permanenza sullo schermo.
Si tratta di quello che Bruno Latour (nel suo volume postumo, il bellissimo Dove sono?) chiama ‘il disgelo del paesaggio’. “Questo cambiamento di forma si basa su una constatazione molto semplice: noi umani non abbiamo mai fatto l’esperienza di incontrare le ‘cose inerti’ che a quanto pare componevano il mondo ‘materiale’. È evidente se abitate in città, dato che ogni millimetro del vostro ambiente di vita è stato fabbricato da esseri umani, vostri simili, ma è altrettanto evidente se state in campagna, dato che ogni singolo particolare del territorio è opera di un essere vivente, talvolta anche molto lontano nel tempo. Questa sensazione che le cose abbiano una consistenza vale per l’intera estensione della zona critica. Le ‘cose inerti’ esistono solo per un’esperienza del pensiero che vi trasporterebbe, con l’immaginazione, in un mondo in cui nessuno ha mai vissuto. Di qui sorge la domanda: la sensazione di questa evidenza modifica oggi il vostro modo di essere, di guardare al futuro, di situarvi nello spazio, di capire quella che chiamate libertà di movimento?”
Ecco perché i personaggi di Here guardano spesso davanti a loro e raramente alle loro spalle, con un espediente rubato al linguaggio delle soap opera (chi ha familiarità con le telenovele sa che spesso i protagonisti guadagnano il primo piano avvicinandosi all’obiettivo della camera fissa, con le altre figure in scena che parlano loro da dietro le spalle o dal fondo del quadro): la portata dei quesiti che queste storie portano con sé travalica il gonfio aspetto mélo delle vicende familiari di Richard e Margaret, e anche la sperimentazione su deaging e velocità di rendering dell’AI, per farsi riflessione su uno dei problemi centrali del nostro tempo – la nostra posizione nel campo d’azione dell’immagine, ora che ogni finestra sull’esterno, come accade decine di volte nel film, si è frammentata in una quantità di schermi più piccoli che si affastellano gli uni sugli altri davanti ai nostri occhi. Le volte in cui i protagonisti guarderanno attraverso la grande finestra che sovrasta il salone si contano sulle dita di una mano, quell’apertura serve soprattutto per far entrare il fuori nell’interno (i pompieri, gli archeologi) – e infatti nell’incipit le due sedie vuote voltano le spalle alla finestra, guardano verso di noi, come un invito a sedersi agli spettatori, per guardarsi allo specchio (quanto Harold Pinter c’è in tutto questo dispositivo?).
No non ora non qui questa pingue immane frana
È un problema di quadro prospettico, cioè una delle questioni cruciali delle rappresentazioni artistiche sin dalla notte dei tempi: non è un caso se Here, nello stesso istante in cui attraversa la cosmogonia di Terrence Malick e le invenzioni da camera di Michel Gondry, di fatto riparte dalle origini frontali del dispositivo, e perciò dalla struttura della sit-com, inquadratura fissa sul salone di casa, il divano come protagonista nascosto, gli attori che crescono e invecchiano col passare degli episodi e delle stagioni (la stessa intuizione che aveva avuto il vicino WandaVision, a pensarci bene). “Come sottolineare una simile mutazione?”, si chiede al riguardo sempre Latour: “Affermando che i terrestri non si trovano più davanti a un paesaggio” (la sequenza cruciale in cui rivediamo al contrario i filmini familiari del capofamiglia Al proiettati sul lenzuolo bianco del quale lo spettatore si trova alle spalle….).
Ecco allora che la natura prepotentemente immersiva di questo piano fisso riconnette tutta questa parabola con il destino sempre più installativo del cinema-che-verrà (Here come La zona d’interesse apparentemente senza l’Olocausto?), la visione di un panel che interagisce con i nostri occhi mentre muta e si apre “in diretta” con noi. Esiste ancora la possibilità di un punto di fuga? Perché i personaggi di Here tutto sembrano volere, tranne che starci, in questo qui e ora (un’altra delle grandi questioni del contemporaneo…) – ma le case natali pretendono il loro tributo (come ben sa il fantasmino di A ghost story), e così Margaret cercherà di andarsene per una vita intera, il padre di Richard sarà destinato a tornarci per i suoi ultimi giorni, Richard stesso resterà intrappolato in quel salone da solo, i suoi sogni infranti come quelli di suo padre.
Alla stregua del fumetto da cui è tratto, Here vuole essere anche un compendio di come il progresso tecnologico abbia influito sulla nostra concezione di spazio domestico (l’entrata in scena del televisore, della super8 casalinga, delle poltrone reclinabili, fino alle mascherine da Covid…). In questo, nella malattia del personaggio di Margaret è contenuta anche un’indicazione (come già facevano The Father di Zeller e Vortex di Noé) su quanto la ricostruzione virtuale “aumentata” di ambienti familiari potrà aiutarci in futuro (a quanto dicono diversi esperti come Federico Faggin e altri) con la comprensione del deperimento neurologico, di cui conosciamo ancora molto poco. In altre parole, sempre prese in prestito da Bruno Latour: “che cosa succederebbe se i protagonisti di questa storia riprendessero a camminare, voltandosi di nuovo di 90 gradi, stavolta però nella direzione giusta, per rituffarsi nel flusso delle cose, che a loro volta riprenderebbero il cammino smettendo così di permettere ad altri di limitarsi a rappresentarle? Dalla parte degli ‘oggetti’ si produrrebbe un allegro trambusto. […] Anche qui, di nuovo, è come il disgelo di un fiume. Fine del naturalismo”. Ecco.
Titolo originale: id.
Regia: Robert Zemeckis
Interpreti: Tom Hanks, Robin Wright, Kelly Reilly, Michelle Dockery, Paul Bettany, Ophelia Lovibond, Jonathan Aris, Nikki Amuka-Bird, David Fynn, Lilly Aspell, Mitchell Mullen
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 104′
Origine: USA, 2024