Hollywood e Donald Trump. La seconda guerra civile americana

Tra il mondo del cinema e il neopresidente si sta consumando uno scontro senza esclusione di colpi che racconta un conflitto pericoloso tra le due Americhe.

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Sul fatto che i Golden Globe sarebbero stati un’occasione irripetibile per Hollywood di ribadire la sua distanza dal neoeletto presidente Donald Trump c’erano pochi dubbi. L’onere (e l’onore?) se lo è sobbarcato Meryl Streep nel ritirare il suo premio alla carriera, con un discorso intenso che ha emozionato tutti i presenti e ha subito fatto il giro del web e del mondo. Poco dopo, la risposta di Trump non si è fatta attendere, con un tweet che ricalca lo stile polemico della sua controversa campagna elettorale: “Meryl Streep è una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood. Non mi conosce ma mi ha attaccato ieri sera ai Golden Globe. È una lacché di Hillary, ma ha perso grosso”. Questa risposta ha innescato a sua volta l’intervento di George Clooney (”Ma non dovrebbe gestire il Paese? Io non lo appoggio, non l’ho votato. Non credo sia stata la scelta giusta”) e di Robert De Niro che ieri ha scritto una lettera di totale supporto all’intervento dell’attrice americana. 

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Insomma Hollywood – com’era ampiamente nelle previsioni – ha messo l’elmetto ed è scesa subito in campo a tutela di una concezione democratica che la presidenza Trump sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo almeno per il momento – mettere in discussione. La vera suspense della prossima notte degli Oscar non sarà probabilmente su chi vincerà le ambite statuette – aggiungiamo sin da ora nell’albo La La Land e non se ne parli più – ma su quale attore, attrice o regista sparerà per primo contro il presidente che a novembre ha sconfitto Hillary Clinton.

Al termine di una campagna elettorale estenuante e molto incerta, alcuni media e il mondo di Hollywood ancora non sembrano essersi ripresi, né forse aver focalizzato al meglio la situazione sociale ed economica del Paese. I rapporti che Trump ha instaurato con la Russia di Putin non facilitano affatto la transizione presidenziale più polemica della storia americana. Il presidente newyorkese in una conferenza stampa

civilusatenutasi proprio ieri ha apertamente polemizzato con la Cnn (“You’re fake news”) rifiutandosi di rispondere ad alcune domande e inasprendo ancora di più i toni. È un clima di guerra dialettica e mediatica quello che in questi giorni sta accompagnando gli americani al giuramento di Trump e il mondo del cinema ha deciso di viverlo in prima linea.   

In una recente intervista a Famiglia Cristiana in occasione dell’uscita di Silence, anche Martin Scorsese si è insolitamente esposto sull’argomento: “La rabbia diffusa oggi in America è diversa da quella degli anni Sessanta, quando si manifestava contro la guerra in Vietnam. È una rabbia più insidiosa e non so come Trump riuscirà a gestirla. Ci aspettano tempi difficili. Spero che i giovani capiscano che rischiamo di perdere i valori fondamentali della nostra democrazia. Molti dicono che non può accadere, ma non è così. Il Paese è giovane, non ha memoria. Quanti ricordano che abbiamo vissuto una sanguinosa guerra civile?”

Il fatto che Scorsese tiri in ballo la guerra civile può sembrare esagerato, oltre che figlio di una poetica da sempre ossessionata dai conflitti storici e antropologici, ma evidenzia un’angoscia molto attuale e molto americana. Come fosse un fantasma dell’inconscio riemerso in un presente indecifrabile. Tenendo a mente anche gli scontri razziali dello scorso anno, la sensazione è che probabilmente negli ultimi due secoli l’America non è mai stata divisa come oggi.

meryl-streepTorniamo ora a quello che ha detto Meryl Streep. Il suo è stato un discorso elegante che ha puntato il dito contro la xenofobia sbandierata da Trump durante la campagna elettorale e ha ricordato la performance di cattivo gusto con cui il candidato repubblicano alcuni mesi prima aveva imitato e denigrato il giornalista disabile del New York Times Serge Kowaleski: “Ce n’è stata una (performance, Ndr.) quest’anno che mi ha stordito. Colpito al cuore. Non perché fosse particolarmente buona; non c’era niente di buono. Ma è stata efficace e ha fatto il suo dovere. Ha fatto ridere l’audience a cui era destinata”.

Ciò che emerge anche in un intervento sobrio come questo è la sottile insofferenza nei confronti dell’altro elettorato, quello repubblicano o, più precisamente, quello che ha scelto Trump. È un dettaglio che in realtà racconta molto bene la divisione tra una fascia sociale e culturale dell’America e un’altra.

Se escludiamo la posizione di Eastwood, tutta Hollywood durante le presidenziali si è schierata contro Donald Trump, al punto che la vittoria di quest’ultimo può anche essere implicitamente letta come una sconfitta dell’establishment hollywoodiano, del suo appeal mediatico e della sua visione sociale.  Le stesse parole di Clooney citate all’inizio sembrano confermare questo legame spezzato con l’altra America (“Io non lo appoggio, non l’ho votato. Non credo sia stata la scelta giusta”). È un rifiuto nei confronti dell’idea e dell’immagine Trump ancor prima che della politica. Ma forse anche nei confronti di un certo tipo di elettorato che, per parte sua, è sempre più ricettivo a una comunicazione viscerale e inizia, forse, a vedere le star di Los Angeles come individui viziati, ossessionati da una Camelot che gran parte del Paese non ha mai avuto il privilegio di vivere.


Nel contrastare la comunicazione politicamente scorretta e razzista di Donald Trump, Hollywood tutela legittimamente alcuni grandi principi su cui si sorregge la democrazia  americana come l’integrazione e la libertà di stampa, ma allo stesso tempo rischia di perdere contatto con quella classe media proletaria che un tempo era stata il suo legame etico con il tessuto sociale. Apparire come un universo chiuso in una bolla, incapace di intercettare e capire il malessere dei cittadini, è l’incognita da evitare. È un destino che del resto sta coinvolgendo le classi intellettuali di molte altre democrazie occidentali, spesso inaspettatamente smentite dai voti popolari. È una questione molto complessa. E mette in ballo diversi paradossi della civiltà, della cultura e della comunicazione contemporanei.

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