Hollywood Reporter indaga le intenzioni del documentario contemporaneo

Scott Feinberg ha tenuto una conversazione con vari documentaristi, mostrando come la vita del regista sia divenuta uno dei punti d’interesse per le nuove frontiere linguistiche del documentario

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“Un’altra conversazione urgente ora, più che mai, riguarda chi può o non può raccontare una storia. Margaret, nel tuo film racconti la storia di una nave di schiavi e dei discendenti degli schiavi che sono neri. Ma tu sei bianca. Alcuni direbbero che non dovresti raccontare quella storia.”

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Durante una conversazione con vari documentaristi, il critico dell’Hollywood Reporter Scott Feinberg affronta con questa domanda provocatoria una delle maggiori criticità riguardanti le modalità narrative di oggi. Come se non sia tanto la sostanza tematica a decretare la validità di un testo o di un film, quanto l’appartenenza culturale ed etnica del suo autore. Perché, indubbiamente, con la perpetua destrutturazione del significato di ruolo all’interno del discorso dell’inclusività, la percezione e la sensibilità dello spettatore ora più che mai gioca in una posizione privilegiata, per cui lo sguardo del narratore piuttosto che farsi comprendere subisce una brutale dissezione a priori. Un esempio lampante di tutto ciò è sicuramente l’estrema volontà del drammaturgo August Wilson di far trasporre sul grande schermo una delle sue opere di maggior successo, ovvero Barriere, solamente da un autore afroamericano, arrivando a rifiutare per anni qualunque offerta produttiva fino all’omonimo film diretto ed interpretato da Denzel Washington. Forse Feinberg ha pensato proprio al caso di Wilson quando ha rivolto questa domanda a Margaret Brown, regista del documentario Descendant dove racconta, attraverso il ritrovamento nel fiume Mobile in Alabama della Clotilda ovvero una nave di schiavi risalente al XIX secolo, la storia delle famiglie discendenti dal nucleo primordiale della città di Africa Town. Ovviamente. secondo le “regole” del politicamente corretto, la visione di Brown siembra quasi obsoleta. Ed infatti lo è. Ma il paradosso è quello di mettere in discussione la visione superficialmente obiettiva ed osservazionale del linguaggio documentaristico ritenendolo distante dai codici puramente cinematografici. Infatti è esemplare la risposta di Brown riguardo la polemica: “Penso che, come persone bianche, dovremmo raccontare le storie dolorose del nostro paese. Sento che fa parte del mio lavoro, o almeno qualcosa che mi entusiasma di essere dell’Alabama e del luogo doloroso da cui vengo: l’arte che aiuta il processo.” 

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This Film Feels Like My Life's Work Until Now" | Margaret Brown, Descendant | Filmmaker Magazine

Insomma, nonostante la lucidità di Margaret Brown, la domanda di Feinberg getta una luce su quelle che sono oramai le intenzioni del documentario contemporaneo. Sì, quello di raccontare prima di tutto una storia ma attraverso quale visione? Indubbiamente in questa golden age del doc si è arrivati a inquadrare la pratica documentaristica sotto un’ottica diversa, considerandola, dopo decenni, effettivamente molto simile nelle sue strutture a un prodotto di finzione. Non stupisce che anche grandi registi affrontino il documentario. The Beatles: Get Back, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story, Il sale della terra, senza dimenticare l’enorme contributo in tempi non sospetti di Herzog, uscito recentemente con The Fire Within: a requiem for Katia and Maurice Krafft. Sono solo alcuni esempi di quanto la visione cinematografica si trovi molto spesso in simbiosi con il congegno documentaristico, dove lo svelamento del punto di vista si può ritenere una questione fondamentale. E la prima opera che balza in testa è Marx può aspettare di Bellocchio, dove la collisione tra il vissuto personale ed estremamente intimo del regista con la rivelazione attraverso il mezzo, annulla tutte le distanze con la materia trattata e con noi spettatori. Infatti sempre durante il suddetto dibattito dell’Hollywood Reporter, anche la regista Laura Poitras, fresca vincitrice del Leone d’oro con All the Beauty and the Bloodshed, ribadisce quanto questa modalità nel contemporaneo sia necessaria, se non addirittura fondamentale per svelare sé stessi in quanto produttori di immagini, affinché il rapporto non solo con i propri protagonisti ma anche con gli spettatori viri verso la più pura condizione di fiducia e sincerità: “Espandere la forma è, credo, cruciale. Ma quando hai a che fare con la vita delle persone, quella è una vera posta in gioco, e penso che queste siano conversazioni davvero produttive e importanti”.

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