HOMEWORKS – Hands of Stone, di Jonathan Jacubowicz

Il respiro drammatico di questo biopic sul pugile Roberto Durán e sul suo rapporto con l’allenatore Ray Arcel (Robert De Niro) si sente solo sul piano esteriore. Il film fantasma di #Cannes2016

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Manos de piedra. Così era soprannominato Roberto Carlos Durán Samaniego, il pugile panamense, stella dei pesi leggeri negli anni 80. Hands of stone, il film invisibile di Cannes69 diretto da Jonathan Jakubowicz racconta la storia di Durán (interpretato da Edgar Ramirez), partendo dall’infanzia nei quartieri poveri di Panama fino ai primi combattimenti, al  suo incontro con il celebre allenatore di boxe Ray Arcel (un canuto Robert De Niro) e al suo rapporto conflittuale con Sugar Ray Robinson.

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Il film ripercorre l’arco della vita del pugile, e quando non si muove sul ring né si declina nei momenti legati alla storia di Panama, racconta il grande amore con Felicidad, moglie e madre dei suoi figli. Seguendo l’andamento classico del biopic si sposta dall’ascesa ai momenti di declino: le follie da testa matta, le amanti, l’alcol. E qui entra in gioco il rapporto con Ray Arcel, l’allenatore che diceva a tutti i suoi pugili di usare la testa. Dare importanza alla strategia tanto quanto (se non di più) se ne da alla tecnica. Ray Arcel, che con un pettine sistemava il pugile quando questo tornava all’angolo fra un round e l’altro.“Così l’avversario impazzisce a vedere che sei tutto in ordine…A vedere che non ti ha scalfito per niente.”

Pur volendo passare sopra a scelte registiche abbastanza discutibili, come ripetuti usi di flashback o dissolvenze in nero, il problema principale del film è che tutto ciò che viene raccontato sembra non riuscire a staccarsi dal semplice resoconto dei fatti. Il respiro drammatico del film (non si sta raccontando una vita semplice, e già solo il ring in sé è portatore di una forte realtà drammaturgica, di un’adrenalinica sofferenza) si avverte su un piano meramente esteriore, il dolore ci colpisce ma solo al livello di una semplice costatazione. Di conseguenza anche il lieto fine ci sfiora solamente come solamente ci aveva sfiorato la tristezza. Inoltre le (troppe) linee narrative che il film si propone di seguire, vengono accennate in modo molto approssimativo e fin troppo esplicito. Roy Arcel e i problemi con la mafia (che porta il bel volto di John Turturro.) E ancora, il suo rapporto con la figlia adottiva che dovrebbe dare ancora più significato al rapporto paterno che Arcel aveva con il pugile.

Anche qui,  il ruolo che il pe

boxrsonaggio di De Niro finisce per assumere agli occhi di Durán (abbandonato dal padre quando era  piccolo), invece di avvalersi della forza delle immagini e dei semplici sguardi, non riesce a svincolarsi dalla frase banale “per me sei come un padre”.

In Hands of Stone, tutto scorre in maniera eccessivamente lineare e coerente sotto i nostri occhi. Un semplice succedersi di narrazioni accompagnate da musiche troppo consapevoli delle emozioni facili verso cui direzionano lo spettatore. Ma ciò che forse più ci stanca (e già questo basterebbe per giudicare il film) sono gli incontri sul ring.  Le sfide con il pugile Sugar Ray che dovrebbero appassionare, semplicemente non riescono, e i pugni sono solo pugni e niente più.

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