HOMEWORKS – Last Days in the Desert, di Rodrigo García
I quaranta giorni di Cristo nel deserto come parabola laica e metafora del rapporto tra genitori e figli. McGregor è Yeshua e Satana insieme, incanta la fotografia di Lubezki. Convince (quasi) tutto
I Vangeli di Matteo (4,1-11), Luca (4,1-13) e Marco (1,12-13) – Giovanni non menziona affatto l’episodio – narrano che, dopo essere stato battezzato, Gesù digiunò per quaranta giorni e quaranta notti nel deserto e di come, durante questo periodo, Satana lo abbia tentato per tre volte. La prima tentazione riguarda il cibo: “Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: Se sei figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane” (Matteo, 4,3). La seconda tentazione riguarda l’obbligare Dio ad intervenire: “Allora il Diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: Se sei figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede” (Matteo, 4,5-6). La terza tentazione è una richiesta da parte del Diavolo di essere adorato: “Di nuovo il Diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e disse: Tutte queste cose io ti darò se, prostrandoti, mi adorerai” (Matteo, 4,8-9).
Last Days in the Desert, scritto e diretto dal colombiano Rodrigo García, figlio del grande scrittore Gabriel García Márquez (Le cose che so di lei, 2000; 9 vite da donna, 2005; Passengers – Mistero ad Alta Quota, 2008; Mother and Child, 2009; Albert Nobbs, 2011) e prodotto da Bonnie Curtis, Julie Lynn e Wicks Walker, sfrutta il grande potenziale narrativo e metaforico di un passaggio poco approfondito nelle Sacre Scritture per restituire una rilettura estremamente personale, intimista e decisamente poco mistica, della figura di Cristo e del suo eterno rivale, Satana. Tralasciando deliberatamente i numerosi riferimenti biblici (quaranta sono gli anni durante i quali gli Ebrei camminarono nel deserto dopo aver attraversato il mar Rosso e quaranta sono i giorni che Mosè passò sulla montagna prima di ricevere le Tavole della Legge) ed etici (ciascuna delle tre tentazioni rappresenta la vittoria di una virtù nei confronti del tentativo di Satana di screditare il primato di Dio: la tentazione della carne, vinta con la castità; la tentazione della ricchezza e del potere mondano, vinta con la povertà; la tentazione dell’autonomia dal volere divino, vinta con l’obbedienza), il regista sceglie il deserto – luogo della non-vita per antonomasia – per inscenare un’esperienza di ricerca della propria identità e della propria missione nel mondo e per rappresentare un “Cristo Adamo”, dunque uomo, in un Paradiso Terrestre che, sconvolto dalle conseguenze del peccato insinuato dal Tentatore, diventa landa desolata ed inospitale. Ed è sullo sfondo di questo paesaggio affascinante e spaventoso che García “precipita” la sua personale riflessione su una questione antica come e più della fede: la comunicazione e il confronto tra genitori e figli, alla quale non è affatto estraneo il figlio di Dio, alla costante ricerca di un dialogo che il Padre sembra negargli con ostinata noncuranza. “Padre, dove sei?”, “Padre, parlami”, invoca accorato un trasandato e sporco Yeshua (Ewan McGregor) in cerca di risposte, ma queste sono affidate al silenzio o, peggio ancora, ad un Satana che altri non è che un “doppio” subdolo e dissacrante che assume le medesime sembianze del figlio di Dio e che, più che tentarlo come da parabola evangelica, lo schernisce, lo deride, lo sfida con dei cavillosi enigmi e lo aizza contro un Padre assente, presuntuoso e che ama soltanto sé stesso. Una dinamica relazionale che si replica e si amplifica nella famiglia che Yeshua incontra nel deserto e presso cui si intrattiene come ospite: un tagliatore di pietre (Ciarán Hinds), la moglie malata (Ayelet Zurer) ed il loro figlio tardo-adolescente (Tye Sheridan). Un padre orgoglioso – che ha deciso di abbandonare il mondo civilizzato per dedicarsi a “portare la vita” lì dove solitamente non c’è – alle prese con un passaggio cruciale e problematico della propria vita tra una moglie sul punto di morire ed un figlio che non vuole seguire le orme paterne, che per sé reclama altro come il diritto di vedere il mondo. È proprio qui il fulcro drammaturgico più originale della pellicola: Yeshua figlio “abbandonato” viene scaraventato nel mezzo di una famiglia in crisi e si trova costretto a mediare, dialogare, comprendere e suggerire il percorso ai vari membri, ritrovando lo spirito autentico della propria missione nel mondo nel momento in cui questa costrizione diventa una sua scelta. A tale proposito assume un forte valore simbolico la scena in cui il giovane figlio del tagliapietre, tormentato da un conflitto interiore che ha tutte le caratteristiche del classico gap generazionale, corre tra le dune rocciose ed urla: “Io non sono un cattivo figlio”, portando Yeshua ad identificarsi con i suoi sentimenti di figlio inascoltato.
García umanizza il tema fortemente religioso – scegliendo una messinscena estremamente realista sulla scia delle riletture “sacre” di Gibson e Aronofsky – e si affida alla maestria del grande direttore della fotografia messicano Emmanuel Lubezki, collaboratore di vecchia data del regista colombiano ed alla straordinaria sensibilità interpretativa di Ewan McGregor, capace di dare credibilità – oltre che volto – ad uno Yeshua essenziale, austero e “laico” e ad un Satana moderno, filosofo ed umorista insieme.
Girato nella suggestiva location del Parco Statale del Deserto di Anza-Borrego, ad est di San Diego – che si è rivelata particolarmente adatta per rappresentare la regione storica della Palestina – e presentato al Sundance Film Festival 2015, il film (distribuito in versione limitata nelle sale americane a partire dal 13 maggio 2016) affascina dal punto di vista visivo (da sottolineare la scelta di non utilizzare alcuna luce artificiale) e conferma le doti e la cifra stilistica di García (in particolare, nell’uso di ricorrenti e variegati campi a due o tre personaggi tagliati in modo diverso, dal primo piano alla figura intera, e tutti contemporaneamente a fuoco), mentre non sempre convince sul piano del montaggio – a tratti eccessivamente lento e scollato – e di uno script che, soprattutto nella parte finale, deraglia verso una sintesi piuttosto cervellotica e confusa, come lo stacco improvviso che introduce la scena in cui vediamo Yeshua appeso ad una croce nel deserto, con la punta di una lancia che gli percuote il costato ed un colibrì – ennesima trasformazione di Satana – che si libra poeticamente davanti al suo volto addolorato. Un ulteriore stacco – poco funzionale alla narrazione, ma di grande potenza simbolica – conclude il film, mostrandoci attraverso un campo lungo due turisti dei nostri giorni che, dall’alto di un comune punto di osservazione nel deserto, ammirano il panorama e scattano una foto (chi altri se non noi stessi?). Sorretta da un ambizioso concept narrativo e visivo, la pellicola riesce comunque nel suo intento di rendere accessibili ad un pubblico non necessariamente credente tematiche come empatia, compassione e sacrificio e di offrire una forte esperienza di riflessione su questioni come fede, destino e famiglia, riducendo all’osso i contenuti religiosi e prendendosi piuttosto il rischio di interpretare la spiritualità su un livello prettamente simbolico e metaforico.