HOMEWORKS – Southbound, di Radio Silence, Benjamin, Bruckner, Horvath

Un’autostrada deserta per cinque storie. E la morale, questa volta, la fa il Male. Un’antologia horror che cavalca la nostalgia dei classici degli anni Sessanta ed Ottanta con ritmo e suspense

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Presentato al Toronto International Film Festival 2015 e, successivamente, al Sitges – Festival Internazionale del Cinema Fantastico della Catalogna 2015, Southbound è stato distribuito solo in un numero limitato di sale americane a partire dal 5 febbraio 2016 per essere poi destinato al mercato di video on demand. Proiettato alla 16a edizione del Trieste Science+Fiction Festival in anteprima italiana nel novembre 2016, il film è un horror antologico che conferisce nuova linfa e vitalità ad un genere in auge negli Eighties e tornato prepotentemente alla ribalta grazie anche all’intraprendenza e al dinamismo di Bloody Disgusting, il sito web fondato nel 2004 da Brad Miska e Tom Owen, acquisito nel 2007 dal gruppo The Collective ed impegnato, negli anni più recenti, nell’attività di promozione e produzione di serie e prodotti di genere, a partire da V/H/S (2012), pellicola formata da una serie di cortometraggi horror e da una trama base per amalgamare il tutto.

southbound-tff-reviewCinque racconti si snodano lungo un tratto deserto di autostrada e tutti i protagonisti, ognuno con la sua storia personale, dovranno necessariamente confrontarsi con un percorso costellato di rimorso, angoscia, paura e coscienza sporca. Ma, come recita la tagline, non importa quale direzione prenderanno: portano tutte a sud! In The Way Out (diretto da Radio Silence e scritto da Matt Bettinelli-Olpin) Mitch e Jack, due uomini feriti e sanguinanti su un furgone, sono perseguitati da misteriose e terrificanti creature che danno loro la caccia; in Siren (diretto da Roxanne Benjamin e scritto dalla stessa insieme a Susan Burke) una band tutta al femminile sta raggiungendo in camper la location del prossimo concerto, ma si trova costretta ad accettare uno strappo da una stravagante coppia di coniugi di mezza età; in The Accident (diretto e scritto da David Bruckner: il vero climax adrenalinico ed emotivo dell’antologia grazie ad un ritmo serratissimo, all’ambientazione cupa e claustrofobica e alla presenza di scene gore strettamente funzionali al racconto) Lucas, dopo aver investito una ragazza, deve fare di tutto per salvare la vita dell’agonizzante sconosciuta; in Jailbreak (diretto da Patrick Horvath e scritto da questi con Dallas Hallam) Danny cerca disperatamente la sorella Jesse che non vede da anni, incontrandola finalmente in un inquietante bar; in The Way In (diretto da Radio Silence e scritto da Matt Bettinelli-Olpin: l’episodio ha inizio da dove si era concluso il primo e lo approfondisce attraverso un flashback, a chiudere circolarmente il racconto) una gang di uomini mascherati da divi del cinema irrompe nella casa di una famiglia in vacanza. Tutti i protagonisti lottano per raggiungere o per scappare da qualcosa – che sia una casa, un parente o una famiglia, un luogo, un misfatto del passato – in quello che si presenta come un horror on the road che strizza chiaramente l’occhio alle atmosfere e alla morale di The Twilight Zone con un evidente omaggio ad un classico del cinema fantastico come Carnival of Souls (1962). La desolata highway – metafora (piuttosto abusata, intendiamoci) di un cammino “da e verso” a recuperare tematiche da sempre care al genere come il ritorno, il viaggio, la redenzione e l’identità, veri e propri topoi di una screenplay’s methodology ormai acquisita – è anche lo snodo, spaziale e narrativo, attraverso cui si sviluppa il fil rouge etico del racconto, come in una classica fiaba della mezzanotte: il senso di colpa che attanaglia tutti i protagonisti. La coscienza che morde e, soprattutto, “rimorde” costituisce l’unità drammatica e narrativa di luogo e di tempo all’interno di un apparente teatro dell’assurdo che finisce per dare sostanza e corpo agli spettri e ai demoni interiori dei protagonisti, ingabbiandoli in un corto circuito di scelte e decisioni da cui non è possibile tirarsi indietro e che segneranno per sempre il loro destino, nel bene e soprattutto nel male.

3056343-inline-i-6-southbound-movie-previewSouthbound mantiene tutte le caratteristiche principali di un prodotto ad episodi, a cominciare dal valore altalenante e dagli esiti discontinui dei singoli capitoli, unitamente però ad un basic concept solido, interessante e logicamente strutturato, ciò che rende coerente e godibile il risultato complessivo: a fare da collante tra i vari episodi è anche la voce cavernosa di Laurence “Larry” Fessenden in versione disc-jokey, un evidente omaggio al Wolfman Jack di American Graffiti (1973). Nessuna cesura astratta, dunque, tra un episodio e l’altro, quasi neppure uno stacco di ripresa nel montaggio: una continuità spazio-temporale che coincide con quella del racconto, garantendo la tenuta e l’armonia dell’insieme e finendo con il rappresentare una sorta di “giorno del giudizio” (lo stesso, identico giorno?) per tutti i protagonisti. Se questa precisa dichiarazione di poetica rimanda a concetti – l’irriducibilità e l’autonomia del prodotto artistico – cari ai processi creativi di John Carpenter (pensiamo soprattutto a Il Seme della Follia, 1994), per certi riferimenti visivi e per determinate dinamiche narrative Southbound opera una vera e propria ricognizione di atmosfere e spunti tipici dell’immaginario orrorifico: dall’escaping movie alla The Hitcher – La Lunga Strada della Paura (1986) alla fascinazione satanica che trova insospettabili adepti tra i membri di una “normale” famiglia della piccola borghesia americana; dalla “possessione” hi-tech e dalle manipolazioni telefoniche alla In Linea con l’Assassino (2002), White Noise – Non Ascoltate (2005) ed Experimenter (la pellicola del 2015 sui controversi esperimenti condotti negli Anni Sessanta dallo psicologo e sociologo statunitense Stanley Milgram) al cinema rape and revenge di Wes Craven e Quentin Tarantino; dalla folle esplosione di violenza gratuita di pellicole home invasion come Funny Games (2007) e The Strangers (2008) alla tematica della “discesa agli inferi” cara a Stephen King. Stimola e diverte il capovolgimento archetipico – non originalissimo, ma comunque efficace – della morale affidata al racconto, per effetto del quale la funzione educatrice e “riparatoria” è affidata al Male nelle sue più disparate – e disperate – (re)incarnazioni, secondo un procedimento già adottato in Devil (2010). Edward Hopper con i suoi celeberrimi dipinti Gas (1940) e Nighthawks (1942) sembra fornire quello che appare come unico, sia pur sfuggente, riferimento topografico tra i vari episodi, una stazione di servizio con un motel nelle vicinanze – a sottolineare una volta di più la tematica della “solitudine contemporanea” – mentre le sperimentazioni sonore rock-blues dei The Gifted scandiscono con efficacia i passaggi cruciali della pellicola tra realismo “macabro” ed apologo fantastico.

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