Hong Kong Family, di Eric Tsang

Tsang si interessa ad una sola realtà: ad un’idea di famiglia opposta a quella di Kore-eda che rinsalda la sua unità nell’istante in cui riscopre i legami di sangue. Dall’Asian Film Festival di Roma

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In Hong Kong Family tutto sembra partire da un unico interrogativo, che alla pari di una nave in tempesta smuove le vite, le azioni e i pensieri dei singoli protagonisti: come si può interpretare – se non addirittura immaginare – un’idea di famiglia, senza che si abbia la minima concezione di cosa sia davvero essenziale a costituirne una? Sin dall’inizio del racconto, ovvero da quella nefasta cena in occasione del solstizio d’inverno di otto anni prima, i personaggi/componenti del nucleo famigliare del film restano avvolti nelle pieghe della solitudine, quasi a rifuggire dal calore dei legami primari, pur di trovare una dimensione più “personale” a cui appartenere – o in cui superare le conflittualità. Ma la ricerca di un senso di individualità, soprattutto da parte del giovane Yeung (Edan Lui), non può che scontrarsi con i codici della cultura contingente, anche se si appartiene alle sue ramificazioni più moderne. In un orizzonte che Eric Tsang qui rilegge costantemente alla luce della tradizione.

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Non è un caso, infatti, che le due parentesi essenziali di Hong Kong Family siano contrassegnate proprio da una festività nazionale. La cena per il Dongzhi – il solstizio d’inverno – è considerata nei territori sinofoni un momento di forte convivialità, dove l’intera famiglia si riunisce per festeggiare la notte più lunga dell’anno – e quindi l’incontro tra freddo e oscurità, yin e yang – all’insegna dell’armonia e dell’equilibrio. Un evento quasi dogmatico nelle vite di cinesi ed hongkonghesi, che Eric Tsang racconta non come punto di raccordo, ma di rottura. In questo senso l’arrivo di una cugina dall’Inghilterra, e la possibilità di riunire la famiglia a otto anni di distanza da quel brutale litigio che ha portato il giovane protagonista ad allontanarsi dal padre, diventa l’occasione per riflettere sul significato stesso di famigliarità. Con i personaggi costretti così a ri-scoprirsi come parti di un insieme più ampio. Lontani dall’esilio di una vita (fin troppo a lungo) vissuta come insulare.

Hong Kong Family descrive allora il filo rosso che lega i componenti della famiglia alla pari di uno struggimento emotivo. Dal giovane Yeung ai genitori fino alla cugina, tutti soffrono alla sola idea di riattaccare i pezzi di un puzzle già dimenticato, quasi come se il “fantasma della familiarità” li schiacciasse sulle soglie di un’esistenza protesa esclusivamente alla fuga. Al punto che lo stesso protagonista, desideroso adesso di costruirsi una carriera nel game designing, proietta il suo inconscio fratturato non solo nelle azioni quotidiane, ma anche nel gioco a cui sta lavorando, incentrato – non a caso – sulla possibilità di ri-connettere il videogiocatore (e quindi, sé stesso) agli ologrammi dei propri cari.

Ma il solo potere di automazione/delegazione dell’intelligenza artificiale, si sa, non può sostituirsi alla necessità degli individui di rinegoziare le fratture passate. Per questo Eric Tsang immerge sin da subito i suoi protagonisti in un silenzio semi-assoluto, nel pieno di una spazialità intima, personale, in cui i fantasmi del passato possono essere affrontati, senza mediazioni né paure. E se il risultato è il raggiungimento di un’appagante catarsi padre-figlio, lo stesso non avviene per il resto dei famigliari, condannati a scenari fin troppo periferici e sommari, in cui la sottrazione emotiva cede anche ad escandescenze poco compatibili con gli altri registri del racconto. Ma quel che Hong Kong Family presenta ai nostri occhi, è la forza di una visione. Di un’idea di famiglia, che contrariamente a quella di Kore-eda, più è prossima alle radici primarie, più rinsalda i suoi legami. Generando un vortice talmente magnetico da far cadere chiunque. Anche chi vorrebbe rimanerne fuori.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
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