Hopper, il testimone silenzioso

hopper in mostra a roma
"Perché scelga certi soggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione". Uno degli artisti che più ha segnato l’immaginario contemporaneo riuscendo a trarre valenze metafisiche dai soggetti meno nobili e solenni è in mostra al Museo del Corso di Roma. Un’esposizione non ricchissima di tele famose ma che ha il merito di rinunciare alla dimostrazione di una tesi, offrendo piuttosto nuove possibili suggestioni e chiavi di lettura attraverso i lavori giovanili di Hopper e il confronto tra i complessi disegni preparatori e le opere finali

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Summer Interior

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Nessuno fa mai niente, nei quadri di Edward Hopper. Qualcuno, di rado, cammina; più spesso siede al tavolo di un bar o sul letto di una stanza vuota. Tutti sembrano bloccati in un silenzio e uno stupore senza tempo. Fissano il vuoto; attendono, assorti e pazienti, qualcosa. E soprattutto, non ricambiano mai lo sguardo. Perché guardano ostinatamente fuori dalla scena, ma anche perché appaiono sempre indifferenti all’occhio di chi li osserva. Analogamente ai personaggi di Hopper, anche i paesaggi solitari, le vecchie case coi tetti a mansarda, i distributori di benzina e i marciapiedi deserti sono mondi autosufficienti cui non importa se e per quanto tempo uno spettatore vi si affacci per caso. Guardando un’opera di Hopper, vorremmo sapere di più del prima e del dopo che racchiudono il momento che abbiamo di fronte, vorremmo riuscire ad afferrare qualcosa di nascosto di cui avvertiamo la presenza e che, magari per un attimo, ci sembra irrinunciabile come una verità di cui non sospettavamo l’esistenza. Perché più i soggetti di Hopper sono comuni e tipici, più le suggestioni che evocano sono universali, più sono fedeli al dettaglio insignificante, più ci stimolano a immaginare un intero mondo di sottintesi. Hopper ha ricercato costantemente la trasposizione del proprio vissuto più intimo, ma la sua arte tocca ancora oggi quello di tutti, né accenna ad affievolirsi quell’influenza magnetica che ha esercitato in ambiti tanto diversi. Sui suoi colleghi, si trattasse di Andy Warhol, di artisti figurativi come David Hockney e George Segal o pittori astratti come Mark Rothko; su intere generazioni di poeti e di scrittori, tanto che oggi può capitare anche di imbattersi in un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver Aldo Nove, Si parla troppo di silenzio. E se tale è la simbiosi che lega le opere di Hopper all’estetica noir da rendere difficile distinguere in che direzione corrano le influenze, è impossibile focalizzare, oltre le affinità più note, da Lang a Wilder, da Hawks a Hitchcock, da Antonioni a Wenders, da Jarmusch a Lynch, tutte le pellicole che devono almeno un’inquadratura ai suoi dipinti.

 

Hopper ha attraversato la storia americana da Theodore Roosevelt a Martin Luther King, ma la sua arte non è cambiata molto. Ha ignorato le macchine e i grattacieli di Manhattan, eppure poche immagini come le sue restituiscono l’atmosfera della New York tra le due guerre. Ha avuto un’unica modella, la moglie Josephine, ed è rimasto tutta la vita un personaggio schivo, ostinatamente concentrato sulla propria ricerca qualunque cosa accadesse attorno a lui. Oggi che le sue opere subiscono la scontata prassi della riproduzione su t-shirt, tazze e lampade da tavolo, e che l’aggettivo “hopperiano” viene affibbiato a ogni figura solitaria intravista dietro una finestra, le sue dichiarazioni asciutte, quasi al limite della provocazione («Tutto quello che voglio fare è dipingere la luce sul lato di una casa»), sono la migliore risposta a ogni tentativo passato o presente di contenerlo entro una qualunque definizione, che sia quella di realista americano o di pittore della solitudine e dell’alienazione. Soir bleu

La mostra che si è aperta il 16 febbraio al Museo del Corso di Roma (curata direttamente da Carter Foster, conservatore del Whitney Museum), se non può contare sulla presenza massiccia delle opere più famose – ma non mancano capolavori come The Sheridan Theatre (1937), Pennsylvania Coal Town (1947), Morning Sun (1952) e Second Story Sunlight (1960)–, permette però di rileggere il mondo del grande artista statunitense attraverso un percorso tematico libero da intenti didascalico-dimostrativi, incentrato soprattutto su un nucleo di opere precedenti a quella che è considerata la sua produzione più nota (le numerose tele risalenti agli anni in cui Hopper viaggiò per l’Europa e le acqueforti che testimoniano la sua quasi decennale attività di incisore), e sui tantissimi disegni che svelano il suo lento e laborioso processo creativo, grazie al quale l’idea iniziale si trasformava nell’opera compiuta attraverso la fusione di elementi tratti spesso da realtà diverse.

Night ShadowsÈ l’entusiasmo per l’arte moderna europea trasmessogli dai suoi maestri della New York School of Art a spingere Hopper a compiere, tra il 1906 e il 1910, tre viaggi nel vecchio continente, tra Gran Bretagna, Germania, Olanda, Belgio e soprattutto Parigi e la Francia. In particolare Robert Henri, l’intraprendente fondatore del Gruppo degli Otto (che radunava gli artisti respinti dalla National Academy), è il maestro cui Edward Hopper riconoscerà un ruolo determinante nella propria formazione. Sostenitore di un realismo pittorico intenso, espressione dell’esperienza interiore dell’artista, Henri fece del suo eterogeneo gruppo il primo vero movimento artistico statunitense del Novecento, grazie al quale la vita quotidiana delle grandi città entrava di diritto nell’immaginario iconografico americano. Un insegnamento che Hopper aveva già introiettato quando, a Parigi, cominciò a dipingere all’aria aperta, lungo la Senna, i boulevards, le stazioni. E poi a ritrarre i caffè, le abitazioni comuni, le stanze d’albergo. Le opere di questo periodo hanno quel carattere particolare che può nascere dell’impatto tra una cultura ricchissima di stimoli e un talento unito a una chiarezza di obiettivi quale era già quello del giovane pittore statunitense. In Summer Interior (1909) c’è Degas e ci sono le donne di Hopper spiate in un interno, c’è già il suo sguardo cinematografico dietro il taglio fotografico del grande impressionista francese. Soir bleu (1914) rivela l’influenza dei fauves nella vivacità cromatica ma ha quell’ordinata composizione spaziale, quell’impianto geometrico che caratterizzerà tutta la sua produzione successiva. Hopper vive in prima persona il clima delle avanguardie, ma sono gli artisti della generazione precedente a interessarlo maggiormente: pur con risultati diversi da quelli degli impressionisti, la definizione dell’immagine attraverso la luce, quella luce che sembra emanare dalla materia stessa dei suoi dipinti, si impone come tratto identificativo della sua arte, tanto in queste prime opere quanto nelle bellissime iMorning Sunncisioni cui si dedicò prevalentemente tra il 1915 e il 1923, quando, lasciatosi alle spalle l’Europa, cominciò a rivolgersi a soggetti americani. Paesaggi deserti e ferrovie, interni di uffici e hall di alberghi, finestre aperte su appartamenti semi vuoti, tavole calde, teatri, sale di cinema: luoghi che il tratto di Hopper, così come andava facendo il cinema in bianco e nero di quegli anni, contribuì a trasformare in icone, attraverso gli stessi forti contrasti tra luce e ombra e il medesimo rigore geometrico nella composizione del quadro. American Landscape (1920), con la casa che si staglia in secondo piano rispetto alle rotaie come la House by the Railroad (1925) che ispirerà Psycho , e quella straordinaria inquadratura di un frammento di città notturna che è Night Shadows (1921) sembrano definiti dalle stesse ombre nette e taglienti che dominavano i set hollywoodiani.

Che il rettangolo disegnato da Hopper per iniziare uno schizzo rimandi allo schermo bianco di un cinema un istante prima delle immagini non è casuale: «Il regista Hopper» scrive Goffredo Fofi «interviene a collocare i personaggi e a decidere il posto della macchina e il suo movimento, ma Hopper è anche il fotografo che ha messo le luci e ne ha deciso l’intensità, è lo scenografo che ha disposto gli oggetti». Hopper selezionava con estrema cura i suoi soggetti, li studiava, lavorava meticolosamente su disegni preparatori che contenevano spesso appunti e riflessioni scritte. La presenza massiccia di questi disegni è senz’altro uno degli aspetti più interessanti della mostra. Accade infatti di scoprire come due dipinti così essenziali, costruiti con equilibrio compositivo perfetto quali sono Morning Sun (1952) e A Woman in the Sun (1961) nascano da un procedimento complesso, fatto di ripensamenti continui sull’intero quadro, di particolari aggiunti e poi tolti, di studi sulle diverse tonalità di colore e di luminositA Woman in the Sunà, con cui giungere a una sintesi assoluta, che sembri il frutto della semplice azione di un raggio di luce entrato da una finestra. La donna di Morning Sun è interamente scolpita con la luce, quasi di quel sole del mattino fosse l’unica destinataria; l’altra sembra riceverla con meno consapevolezza, forse con meno piacere, i raggi del sole la definiscono con maggiore durezza, lasciando in ombra la parte posteriore del suo corpo. Entrambe sembrano assorte, in ascolto di un qualche intimo pensiero e allo stesso tempo in relazione con quanto si trova oltre i limiti del quadro. Come sempre, siamo stimolati a creare una narrazione da quanto stiamo osservando. Basta poi una semplice occhiata ai primi due studi per Nighthawks (1942, non presente in mostra) per cogliere subito l’architettura del dipinto. Dal primo schizzo si vede con chiarezza che il famoso bar all’angolo della strada è in realtà un trapezio, per la precisione un trapezio isoscele, i cui lati convergenti creano una spinta verso sinistra. Il secondo schizzo, dominato dal nero a eccezione dell’area corrispondente alla vetrata, evidenzia come la luce densa che emana dal locale interrompa il naturale movimento verso il punto di fuga creando la possibilità di una pausa, in cui lo sguardo del viaggiatore notturno, il nostro sguardo, rimane intrappolato. Cosa possa esserci alla fine del viaggio o oltre la soglia di quell’isola di luce è naturalmente un’altra storia. Di nuovo Hopper è il testimone silenzioso che ci ha condotto a rispettosa distanza da un segreto. Vi ha diretto la luce, ma senza svelarlo.
 
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