Horizon Forbidden West e la mascolinità tossica tra i videogiocatori

La marea nera di body shaming nei commenti al primo trailer del seguito di Zero Dawn è solo l’ultimo degli innumerevoli casi di mascolinità tossica, un problema che affligge il mondo videoludico

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Lo scorso 27 maggio sono tornati i mecha-dinosauri di Horizon, con la presentazione del primo gameplay trailer del secondo capitolo Forbidden West. La storia riparte a sei mesi di distanza dal finale di Zero Dawn, continuando a seguire le avventure della sua protagonista Aloy. A sollevare un polverone, però, non è stata la trama, ma l’estetica del personaggio: se la polemica andata per la maggiore è stata quella relativa all’ingrassamento di Aloy, alcuni utenti sono arrivati al punto di sostenere che l’aspetto del personaggio abbia subito un restyling per farla apparire più mascolina. Osservazioni del tutto pregiudizievoli e maliziose, ingiustificabili sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista narrativo e che puzzano di body shaming.

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Un caso, questo, che riaccende i riflettori su un problema importantissimo della comunità di videogiocatori: la mascolinità tossica. Un problema che non si limita solamente ai latrati sui social network o tentativi di boicottaggio (zoppicanti, tra l’altro) come nel caso del review bombing di The Last of Us Part II. Scalfendo la superficie si scopre il grumo nero di un problema culturale ampio e complesso, non aiutato affatto dal manicheismo con il quale viene spesso trattato. L’industria videoludica in questo senso sta facendo numerosi sforzi per proporre narrative legate a tematiche LGBTQ+ oltre che proporre personaggi femminili che permettano un’identificazione di quella che ancora viene vista da molti come una chimera, ossia la videogiocatrice, tentando anche di uscire da un inamovibile ideale di bellezza alla Lara Croft.

Sempre più videogiochi permettono di scegliere il genere del proprio personaggio (per esempio Cyberpunk 2077 e la sua customizzazione dei genitali), rendendola a volte anche fluida e incisiva nella narrazione (pensiamo ai due capitoli conclusivi della saga di Dark Souls). La libertà viene vista come un elemento portante per l’inclusività nel mondo videoludico, ma si è rivelata anche un’arma a doppio taglio, soprattutto per piattaforme come YouTube e Twitch che crescono anche grazie a contenuti derivati dai videogiochi, come i gameplay. Un caso interessante è stato quello di Shirroki, un utente di YouTube che ha caricato diverse clip ironiche e provocatorie dalle sue partite a Red Dead Redemption 2. Il video che lo ha fatto diventare un caso è quella in cui cattura un personaggio del gioco, una suffragetta, per darla in pasto agli alligatori. Di tutta risposta, YouTube ha prima oscurato il video e poi il canale di Shirroki. Una chiusura che ha generato un’ondata di malcontento tra i content creators della piattaforma e che ha portato la piattaforma a fare un passo indietro (in una dinamica simile a come ha agito Twitch con le hot tub streamers).

Comunque, non si tratta solamente della rappresentazione di genere nei videogiochi, non sempre pienamente consapevole ed efficace. È fondamentale pensare anche alla qualità della presenza delle videogiocatrici nei mondi virtuali del gaming. In questo senso, se si vuole scomodare la statistica dal suo trono, i dati sono impietosi: una ricerca ha appurato come il 59% delle giocatrici nasconde la sua identità di genere online, mentre il 77% dice di aver subito commenti sessisti durante le sessioni di gioco multiplayer. Numeri che acquisiscono un peso diverso se si pensa che il 47% dei giocatori mondiali è di sesso femminile.

I numeri non si possono amare” cantava Franco Battiato, ma c’è il sospetto che siano allo stesso modo difficili da odiare. Il racconto della giornalista Jordan Belamire può aiutare a concretizzarli. È il 2016 e Belamire prova per la prima volta il casco della virtual reality provando QuiVR, un gioco a tema zombie ambientato in un’innevata fortezza medievale. Nella versione multiplayer del gioco, ad affrontare le ondate di zombie possono esserci anche altri giocatori nei panni di avatar fatti di sole mani ed elmetti fluttuanti. Durante la sua partita, Belamire incontra un altro giocatore, BigBro442, che, identificata la giornalista come donna attraverso la sua voce, comincia a palparle virtualmente il seno e il sesso, portandola prima a reagire prima con imbarazzo e poi con rabbia, lasciando la partita.

Il fatto che questi gesti sessualmente aggressivi siano accaduti in un mondo virtuale e senza contatto fisico basta a non renderle molestie? Decisamente no, visto che la parola virtuale è tutt’altro che un sinonimo di inesistente. L’immaginario ha un peso fondamentale nella vita di tutti ed è in grado di creare tanto disagio quanto, nel peggiore dei casi, veri e propri traumi. Viviamo in un periodo nel quale le grandi narrazioni condivise stanno cambiando o forse sono già cambiate, facendosi più inclusive. Parallelamente a questa apertura, proliferano rigurgiti reazionari fomentati dal piacere della trasgressione. Annientare l’opinione di questi utenti per mezzo di ban, farli sentire braccati compattandoli nel vittimismo, difficilmente potrà convincerli ad abbracciare modalità di convivenza civile virtuale. Forse, bisognerebbe prendere esempio da Alanah Pearce, che in risposta alle minacce di stupro di giovani hater, contattava i loro genitori. Utilizzare l’arma del dialogo, quindi, sperando che sia vero il vecchio detto che nessuno è completamente impermeabile alle buone ragioni.

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