HORROR & SF – "Pontypool", di Bruce McDonald


La sua doppia attenzione per una scrittura puntuale e a volte densissima, e una messa in scena quasi da cinema classico per il timing e la composizione, ne fanno un oggetto fuori dall’attuale tempo filmico horror, un placebo di scrittura e regia 

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La Storia del Cinema è, essenzialmente, una storia del genere (attenzione all’uso consapevole delle maiuscole). Tracciare l’evoluzione e i processi della Settima Arte è possibile, sotto un aspetto emico, attraversando le varie fasi di un genere esemplare e abbastanza longevo nel tempo, rilevando e rilanciando su una scala etica e generale le evoluzioni narrative, gli aggiornamenti attoriali, l’avanzamento tecnologico, gli schemi economici/produttivi/distributivi. La fantascienza per la dimensione sociale e visiva, l’horror per l’organizzazione narrativa e i piani di immedesimazione spettatoriale, sono forse i due generi più rappresentativi in questo senso: gli autori, il pubblico, gli stessi film – per uno sguardo metanarrativo ed extra-diegetico assolutamente centrale come in nessun altro genere – hanno ormai inoculato e metabolizzato una soglia di consapevolezza filmica altissima, che li rende, tutti e tre i segmenti della filiera, delle “teste parlanti” in stretto rapporto tra loro, per un dialogo fatto di aspettative/conferme/validazioni/disinnescamenti unico in campo cinematografico. Una conferma recente di questo sentiero interpretativo è stata l’accoglienza e la disamina minuziosa di Pontypool, lavoro del 2008 dell’instancabile Bruce McDonald tratto dal libro di Tony Burgess Pontypool changes everything.
La trama: Grant Mazzy, dj cittadino in declino che adesso lavora per la stazione radio CLSY di Pontypool, sperduta cittadina dell’Ontario, mentre in un’oscura e imbiancata mattina si reca al lavoro, incontra fugacemente una donna che farfuglia qualcosa di incomprensibile, per poi scomparire nella notte che ancora avvolge l’inizio della giornata canadese. Con il passare delle ore, e da dietro il suo microfono, capirà che quella era l’avvisaglia di una strana epidemia che ha colpito la cittadina, epidemia che si diffonde tramite il linguaggio, poiché alcune parole della lingua inglese sono infette…

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La maggior parte della sfera critica (riviste, blog, portali ecc.) – e per riflesso retro-temporale anche il film stesso – si è concentrata sull’idea di partenza e, in massima parte con il viatico di questo spunto che come ha scritto qualcuno è “definibile geniale”, ha salutato l’arrivo di Pontypool come qualcosa di assolutamente originale, addirittura aspettato e necessario, sempre all’interno di quella linea evolutiva ma non lineare descritta all’inizio (vertigine analitica: Pontypool, in quanto elemento emico della storia del genere, prefigura la genesi di una o più speculari pellicole nell’etica Storia del Cinema? Magari Up, The Social Network, The Tree of Life…). Il “core” del film ha un indubbio valore che lo smarca e lo fa risaltare per contrasto in un orizzonte cinematografico occupato in questi ultimi anni da torture porn e mockumentary/POV movies (con la silenziosa ma sempre più evidente ascesa delle ghost stories e, o più, haunted houses); di più, la sua doppia attenzione per una scrittura puntuale e a volte densissima, e una messa in scena quasi da cinema classico per il timing e la composizione, ne fanno un oggetto fuori dall’attuale tempo filmico horror, un placebo di scrittura e regia dopo la bulimica assunzione spettacolare ed emotiva recente. Purtroppo questo controllato e fermo velo d’intenti ammanta fin quasi all’intorpidimento, rendendo sedati o innocui o addirittura fuori posto le numerose asperità che in apparenza donano attrito e luminosità ai temi e le idee più interessanti: un registro che a volte vira sottilmente verso l’ironico; un setting geografico come il Canada anglofono e francofono assieme, in cui l’apparizione del virus assume dei connotati eminentemente politici e che ha nel bilinguismo la sua origine e risoluzione, appunto, “politica” (mandare dei soldati francesi immuni all’idioma d’Albione), in una visione caustica e complottistica di cui avrebbero rivendicato la paternità i Les Assassins en Fauteuils Roulants dell’Infinite Jest di David Foster Wallace; la comunicazione come piano monodimensionale e monosignificante in cui tutto si appiattisce (anche l’Arte e la Storia, come hanno scritto Germano Celant e Mario Perniola), dai rapporti amorosi (“honey” e “sweetheart” sono tra le prime parole ad essere infettate) a quelli familiari (le comunicazione in loop dei soldati francesi intimano di evitare ogni contatto con i propri cari); i riferimenti criptici e misteriosi di cui è pieno il film – la ancora non interamente spiegata natura e sviluppo degli infetti, la regressione bambinesca di uno di loro che in fin di vita chiama sua madre con la voce che aveva da bambino, il finale catastrofico e il finale post-titoli di coda, il riferimento alla Golden Dawn.

E’ significativo come tutto questo faccia il paio con la primissima scelta da parte di Burgess di scrivere un film interamente “parlato”, con sullo schermo solo la visualizzazione del tracciato audio dei dialoghi e nient’altro (poi parzialmente realizzato tramite un adattamento radiofonico con gli stessi attori per il BBC World Service che trovate qui). O la regia di quel Bruce McDonald enfant terrible canadese e autore l’anno prima dell’effettato e splittato The Tracey Fragments con una Ellen Page pre-Inception e pre-Juno. L’idea di partenza ha poi di fatto colonizzato il resto del film, rendendolo quasi una glossa, un’appendice di quel potente spunto, e Burgess e McDonald non sono riusciti ad ampliare ed esplorare le diramazioni di cui tale inizio era gravido, perdendo progressivamente in tensione e paranoia, in logiche e sviluppi narrativi (cosa che ad esempio un film come Il cubo, simile per un’apparente asimmetria iniziale dovuta al forte spunto di partenza, non fa). Rimangono comunque le forti e complesse figure tracciate, quei “conversationalists” la cui genesi e dinamiche e propagazione ne fanno delle icone horror degli ultimi anni assieme ai “Weeping Angels” del Doctor Who (e considerando il sequel in cantiere di Pontypool, che porterà sullo schermo le restanti parti del libro di Burgess, potrebbero aspirare a riflettori ancora maggiori).

Infine un’ultima annotazione su questo prodotto figlio in larga parte di quella sfera critica vera e propria “testa parlante” consapevole dello statuto e del linguaggio del genere: in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Jorge Luis Borges scrive di un mondo creato artificialmente da una congrega segreta di intellettuali tramite coordinate culturali e fisiche che, lentamente, si sta propagando nella nostra realtà prendendone il posto. Grant Mazzy, dj in declino che cita Roland Barthes e Norman Mailer, cercando furiosamente di uscire dalla “comunicazione” cittadina della radio in cui si parla principalmente dell’autobus della scuola o l’inviato per il traffico sta in una macchina a cui vengono aggiunti degli effetti sonori per farlo sembrare in elicottero, crea/spezza/ricompone la storia linguistico-formale della scomparsa del gatto della signora French nella splendida sequenza iniziale (che potete vedere poco sotto in versione kinetic typography). Borges e Mazzy ci parlano della lingua, o meglio, della fantasia come motore primo immobile di un’altra realtà, della realtà. Come un mondo immaginario, come un’epidemia del linguaggio, come un film.


 

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