Hybris, di Flavia Mastrella Antonio Rezza

Rivolta verso Dio o verso l’Io? L’ultimo spettacolo di RezzaMastrella apre la porta del dubbio, chiude quella della certezze e scardina quella dei rapporti personali. A teatro l’hybris è dinamite

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La sfida agli dei, alla fisica umana, all’ordine sociale se compiuta da un essere qualunque è perseguibile con pene severe, se attuata da un essere straordinario denuncia invece la volontà di trascendenza dei propri e degli altrui limiti. Il popolo agogna i confini della Legge, il genio li definisce. Detto con un altro aforisma binario: nella mitologia greca per l’eroe questa lotta metafisica è un dovere, per il comune mortale un peccato da esecrare e da schivare. Ma è sulle assi di un teatro capitolino che il paradosso di uno dei concetti fondativi della civiltà occidentale finalmente esplode: attraverso l’hybris è l’Io che cerca di superare il Dio o il Dio che s’arroga il diritto di giudicare l’Io secondo i suoi perfettissimi ed impossibili parametri? L’ultimo spettacolo di Flavia Mastrella ed Antonio Rezza, che si chiama appunto “Hybris” ed è attualmente in scena al Vascello di Roma, solleva domande titaniche non tanto per l’epicità della sua messa in scena – forse scenograficamente mai così scarna ed allo stesso tempo ingombra di presenze (ben otto attori!) – quanto per le sue mancate corrispondenze. Perchè, di fronte ad un testo che riflette sulla piccolezza egolatrica di RezzaMastrella, arlecchino artaudiano che continua a rivolgere verso sè stesso i dardi più acuminati della sua folle analisi da “psicotropo” (suo il neologismo), la risposta che il duo artistico cerca dal suo spettatore, a volte complice e più spesso vittima, è sempre quella più inaspettata e quindi più galvanizzante. Tutte le letture sono esatte perché nessuna lo è ed anche quelle più ovvie chiedono di essere de-contestualizzate per meglio (non) comprenderle. Si veda ad esempio la porta semovente che per gran parte della spettacolo Rezza si trascina sul palco dando vita ad un’incredibile mitragliata di gag verbali e fisiche. La porta non è bullonata in un punto preciso: l’attore novarese stabilisce di volta in volta i confini fisici e quelli personali su chi sia l’ospite ed il visitatore. Come dice lo stesso Rezza: “In questo lavoro a un certo punto io mi faccio Stato e decido secondo miei criteri chi sta dentro e chi sta fuori; divento arbitro del destino degli altri, prevarico la libertà altrui“. Sul palco soltanto il suo alter-ego è degno del microfono, gli altri personaggi che rappresentano le disarticolazioni della sua personalità e della sua famiglia s’esprimono pochissimo e quando lo fanno la loro voce arriva come qualcosa di poca importanza, come un’eco alle stramberie cubiste (la scena del metal detector, il trasportino finale) del bacchico protagonista.

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Ecco, di tanti riferimenti critici elaborati sulla maschera di RezzaMastrella è spesso sottovalutato quello che lo collega in maniera carsica a Nietzsche, ed in particolare all’essere dionisiaco che sussume in sé la prescrizione di dover contrapporsi e quindi contrapporci alla visione apollinea della vita. “Hybris” è infatti un’anatema contro l’istituto sociale nucleico che è preposto a mettere ordine nel caos della nostra psiche con un ordine approvato dalla comunità e che è alla base della sua stessa esistenza: la famiglia, sempre corrotta e di cui si è all’altezza, per citare una battuta fulminante del testo. I rapporti umani con Chiara, Chiara quell’altra, la madre e l’amico che puzza di suicidio assistito e formaggio (entrambi emblemi svizzeri perculati dal protagonista e che danno vita ad una massima da appendere nella cameretta della mente: “La vita è l’eutanasia dei poveri“) sono luogo rivendicato di malessere e disagio. La porta che continuamente viene sbattuta in faccia alle sciocchezze dei consanguinei presenti in scena – anche la domanda sull’identità di chi bussa merita di essere sbertucciata con un sonoro “Gustatelaaa!“, ad indicazione dell’assenza di curiosità che è la quotidianità a tutte le latitudini – è per RezzaMastrella il mezzo per esprimere la sua estraneità al pigro e cheto sfilacciamento temporale. La violenza verbale, in barba a qualunque MeToo senza sugo, colpisce con più icasticità la fidanzata (ci si perdoni il profluvio di estratti ma certe crasse risate non si dimenticano: “Non lasciarmi da solo come quando sto con te” ma anche “Mi ti dimentico mentre stiamo insieme“) e la madre, solito oggetto di attenzioni incestuose che forse non scorticano orecchie ed occhi come in altri lavori audiovisuali del duo ma riescono a mantenere la loro funzione perturbante. Più ripasso di linee teoriche precedentemente enucleate che punto di svolta del percorso artistico di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, “Hybris” comunque non perde un’oncia della poetica anarchica della coppia e nel mare magnum di neologismi, barbarismi, borborigmi e simil-grammelot – l’apertura dello spettacolo in cui un Rezza sdraiato sulla bara gorgoglia suoni senza senso e luoghi comuni fin troppo carichi di senso – riesce ad infilare le care vecchie stoccate politiche. La violenza, ad esempio, continua ad essere il rivendicato “rifugio di noi poveri” ed è in questo caso apparentabile, in un altro caso di acutissima metafora, a quella del cemento per cui il buon RezzaMastrella s’eccita nell’abusare della madre soltanto pensando agli analoghi stupri del paesaggio compiuti dall’edilizia. Anche l’antiamericanismo, pur in uno spettacolo incentrato sulla disarticolazione dell’individuo, è il soggetto di un altro vorticoso calembour: “Ho l’incoscio yankee che fa quello che cazzo gli pare ma poi la colpa è degli altri“. E le bestemmie degli ultimi dieci minuti di spettacolo, ancora più terribili perché non pronunciate verbalmente ma grazie all’ausilio di un assordante fischietto, rendono intellegibili anche al meno raffinato degli auditori il senso ultimo di questa hybris: è la ribellione a Dio a renderci divini.

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