I cavalieri che fecero l'impresa

Accade sempre più di frequente che la distanza fra le mega produzioni hollywoodiane e quelle europee si riduca. Le ultime pellicole del regista d’oltralpe Luc Besson, testimoniano lo sforzo di coniugare una visione personale/d’autore con la possibilità d’esportazione di un prodotto che sia all’altezza dei mercati d’oltreoceano. La mancanza di grossi mezzi produttivi ha spesso costretto il cinema italiano a doversi necessariamente richiudere su se stesso privilegiando contenuti, nella maggior parte dei casi, intimisti, a scapito della spettacolarità che è più immediata e prevede la fruizione di un maggior numero di spettatori. Dalla volontà di appropriarsi di una più ampia porzione di mercato nasce il progetto ambizioso del regista di Regalo di Natale: realizzare un film per tutti. Questo è I cavalieri che fecero l’impresa, una pellicola che contiene già nella sua genesi l’intenzione di non costringere lo spettatore ad alcuno sforzo interpretativo con la promessa di accompagnarlo, senza impegnarlo, lungo un tracciato narrativo che ricrea atmosfere pese in cui la più acre violenza è la cifra che caratterizza le imprese compiute nel corso di un secolo fra i più bui della storia, il Medioevo. Avati rinnega o più correttamente dimentica l’orgoglio dell’autore, rigurgito auto-declamatorio, superfluo quando, come in questo caso, si può stupire senza necessariamente dire; e l’abbondanza di mezzi economici (ben diciotto miliardi), quando passa per le mani sbagliate, può risvegliare un’ambizione che si realizza nella volontà di raggiungere la perfetta “estetica ”, salvo che in quest’ultima risiede non solo la maniacale ricerca della perfezione descrittiva, ma anche, e per fortuna, una categoria filosofica. Il cinema è un linguaggio fatto di segni, l’intrattenimento è una delle tante espressioni del linguaggio cinematografico, ma è giusto affermare una personale idea di rappresentazione nel corso di tanti anni di mestiere per poi rinnegarla con tale spavalderia? Le questioni che la pellicola di Avati solleva sono tutte esterne all’ “impresa”, ma da essa derivano. La fierezza con la quale il regista afferma di aver portato per la prima volta una macchina da presa nella chiesa di Saint Denis, e di aver volutamente trascurato di attribuire alla storia e ai personaggi un qualsiasi spessore, per privilegiare l’aspetto affabulatorio, derivante da un impianto scenografico “realistico”, rende intollerabile un’operazione economica tout court, spacciata, con candida sincerità, come desiderio senile di dar vita, in chiave giocosa (bastava un fumetto), alle suggestioni prodotte dalle letture infantili del regista. L’incipit, fra i più scontati e didascalici, è affidato al narratore interno interpretato da Carlo Delle Piane (in qualche forma doveva pur comparire) che annuncia l’inizio della storia, un’impresa segretissima compiuta da cinque cavalieri che improvvisamente si scoprono dediti alla causa cristiana e sacrificano la propria vita per recuperare la Sacra Sindone nel luogo dove membri traditori della corte di Francia l’avevano nascosta, realizzando così l’estremo desiderio espresso da re Luigi IX in punto di morte. Comincia il viaggio, si susseguono i vari scontri sanguinosi ai quali i cavalieri con fierezza si sottopongono in nome dell’impresa. Il regista non descrive l’azione, limita i totali stringendo la cinepresa sui colpi che via via vengono inferti ai nemici di turno, indugia sui dettagli. Amputazioni e budella che fuoriescono dagli stomaci occupano metri di una pellicola che si trasforma nelle scene di azione in un puro splatter medioevale. Bisogna però capire l’inclinazione al gioco del regista ed assecondarla. La difficoltosa impresa, una volta scoperto il segretissimo luogo che ospita il sacro lenzuolo, si risolve in pochi secondi, giusto il tempo di scardinare lo scrigno che custodisce la reliquia e filarsela senza essere notati. La fine dei cavalieri è scontata, naturalmente periranno con onore lasciando come unico testimone dell’avvenuta riconsegna della Sindone il narratore della storia.
Lineare il racconto, scivola addosso veloce e nulla lascia dentro, se non il desiderio di pensare e di poter parlare del cinema, quello vero.
Regia: Pupi Avati
Sceneggiatura: Pupi Avati
Fotografia: Pasquale Rachini
Montaggio: Amedeo Salfa
Musica: Riz Ortolani
Scenografia: Giuseppe Pirrotta
Costumi: Nanà Cecchi
Interpreti: Raoul Bova (Giacomo di Altogiovanni), Edward Furlong (Simon di Clarendon), Marco Leonardi (Ranieri di Panico), Stanislas Merhar (Jean de Cent Acres), Thomas Kretschmann (Vanni delle Rondini), F. Murray Abraham (Delfinello di Coverzano), Carlo Delle Piane (Giovanni da Cantalupo), Gigliola Cinquetti (Madre superiora), Edmund Purdom (Ugo di Clarendon), Franco Trevisi (Ronaldo da Gesso), Sarah Maestri (Odilia)
Produzione: Antonio Avati, Tarak Ben Ammar, Mark Lombardo per Duea Film/Quinta Communications/RAI Radiotelevisione Italiana
Distribuzione: Twentieth Century Fox
Durata: 147’
Origine: Italia/Francia, 2001

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