I figli del mare, di Ayumu Watanabe
L’ambizioso racconto dell’amicizia fra tre ragazzi che si riflette nella complessità dell’universo, segna il ritorno a un’animazione giapponese ricercata e visionaria. In sala fino ad oggi
Il mare di Children of the Sea è un liquido amniotico da cui si genera l’universo e dove gli esseri umani non hanno difficoltà a respirare, mentre vivono le loro esperienze di riavvicinamento alla propria essenza: è un universo a parte, ma profondamente intrecciato alla vita comune dei personaggi che affrontano l’avventura raccontata da Daisuke Igarashi nell’omonimo e breve manga, edito in Italia da Panini. A trasporlo in animazione è Ayumu Watanabe, regista al suo primo progetto importante dopo un paio di film dedicati a Doraemon e alcune serie televisive. L’impresa non è facile, perché si tratta di restituire nella forma del lungometraggio il complesso sistema di riferimenti esistenziali e filosofici messo in piede da Igarashi attraverso una forma espressiva molto particolareggiata, fatta di vignette sature di elementi, con un grande apporto visionario e in perenne bilico fra realismo e astrattismo.
La vicenda segue l’irrequieta Ruka, studentessa della scuola media, e il suo rapporto con due ragazzi cresciuti dai dugonghi e adattatisi alla vita in mare. L’uno, Umi (“mare”) è gioioso ed esprime un’insopprimibile vitalità, l’altro Sora (“cielo”) è invece umbratile e sfuggente, come presago della caducità cui è destinata la sua vita. Il confronto con i due fratelli costituirà per Ruka anche un percorso interiore fra terra, cielo e mare, alla ricerca delle sue motivazioni verso un mondo (e una famiglia) con cui ha un rapporto conflittuale, dove il suo afflato libertario è continuamente represso dalle convenzioni e da una sorta di recondita incapacità a comprendere le esigenze altrui. Resta più sullo sfondo invece la canonica incapacità dei “grandi” a comprendere il mistero dei due ragazzi, trattati come oggetto di studi, mentre l’intera vicenda scivolerà verso un rituale di fecondità fra l’oceano e lo spazio astrale, che riunirà infine i tre giovani protagonisti.
La forma espressiva prediletta subordina così l’inadeguatezza delle parole a un’immersione lirica e potente in questo “mare mondo”, immaginato con grande impeto visivo: quasi un ritorno alle palingenesi kubrickiane, ma più ancora a certe tensioni alla trascendenza tipiche di certa animazione nipponica anni Ottanta (vengono in mente Harmageddon – La guerra contro Genma o il seminale Akira): una sorta di superamento dei confini temporali, che finiscono per coincidere con l’intero universo, esattamente come il viaggio dei tre ragazzi dal particolare all’universale si rispecchia poi in una dinamica di avvicinamento e ricerca reciproca, che dice di quanto una storia così ambiziosa nei suoi
contenuti filosofici sia poi riconducibile a concetti più vicini al quotidiano degli spettatori come l’amicizia o il bisogno di formare legami. Un po’ come in Akira, dove il potere assoluto di Tetsuro non fa venir meno il bisogno del personaggio di sfogare unicamente la sua rivalità con Kaneda.
In questo senso, I figli del mare, è un’opera perennemente duale, che riecheggia nelle sue articolazioni il doppio passo di una trasposizione che deve rendere conto dell’origine cartacea forte, ritagliando però gli spazi necessari a Watanabe per affermare il carattere del proprio sguardo. Pertanto, la tensione al trascendente è spesso frenata dai dialoghi a tratti ampollosi, didascalici, come a non voler mai lasciare andare completamente il racconto, fornendo allo spettatore degli appigli all’eccessiva deriva visionaria. Un dualismo presente anche nel ritratto stesso dei personaggi, esili e filiformi ma con mani e piedi grandi, quasi stilizzati nelle forme che riverberano la natura “disegnata” del tratto a matita, in contrapposizione a spazi dove risulta evidente la pennellata più “grossa” o l’utilizzo della CGI. Un’esperienza che in altri tempi avremmo visto bene in mano a un Rintaro e che riconcilia l’appassionato con l’animazione più ambiziosa, da vivere rigorosamente sul grande schermo.
Titolo originale: Kaiju no kodomo
Regia: Ayumu Watanabe
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 111′
Origine: Giappone, 2019
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani