I FILM IN TV: "Blackout" di Abel Ferrara
Con "The Blackout" Ferrara mette in scena un film libero, vertiginoso, che s'avvolge spiraliforme intorno allo sguardo dello spettatore tramortito dalla terrificante eleganza di questo autentico – e lucidissimo – viaggio al termine della notte. Mercoledì 16/2 ore 3:30 Italia 1.
Abbandonando la solenne ieraticità di The Funeral, Ferrara, con The Blackout, mette in scena un film libero, vertiginoso, che s'avvolge spiraliforme intorno allo sguardo dello spettatore tramortito dalla terrificante eleganza di questo autentico – e lucidissimo – viaggio al termine della notte. Ferrara si fionda, con la violenza che ormai gli è unanimemente riconosciuta come un vero e proprio tratto autoriale, al cuore della modernità cinematografica.
Non si tratta, come pure è stato pigramente notato, di un mero riproporre le tematiche di Occhi di serpente. In quel film si trattava di sondare il farsi della verità cinematografica contrapponendole il deteriorarsi delle relazioni degli uomini che il cinema di fatto, produce. Si trattava di mettere in scena un'aporia, un conflitto insolubile. The Blackout invece è una riflessione sulla morte che nutre il cinema e che Jean Cocteau, con una formula celeberrima, aveva definito la morte al lavoro. Al cinema quindi non si muore: si rimuore. Matty si trova catturato all'interno del momento che ha determinato la sua dannazione. Dover rivivere, come in un film interminabile e proiettato all'infinito, il momento che ha sancito la sua perdizione e che, in modo assolutamente ferrariano, si è procurato con le proprie mani. Il cinema quindi è questo rimorire nel quale si ritorna sui luoghi di una scena primaria che si caratterizza soprattutto in quanto segnata da un'assenza di immagini. Blackout. Matty non vede. Non ricorda. Sogna. E i sogni gli sembrano più veri della realtà: anzi gli sembra di commettere realmente quello che sogna. La membrana che separa la sua vita dal buio uterino della notte nella quale il cinema inizia a pulsare si tende sulla veglia. Lo sguardo si confonde. La messinscena onirica si allunga sulla percezione diurna e ne altera i ritmi, proprio come in un trip acido che non ne vuole sapere di finire. Un trip dal quale si ha il terrore di non riuscire più a emergere. Un trip nel quale ci si rivede compiere quegli atti, quei gesti che hanno provocato la confusione dei piani della realtà. Allo psicanalista Matty dice di non ricordare, anche se i suoi sogni sono vividi da far male. Tanto vividi da mettere addirittura in forse lo statuto della realtà domestica di Matty e Susan (il cui sogno ricorrente ricorda l'incipit di The Driller Killer…). Annie ritorna dunque come sogno, come assenza di un corpo, di un corpo cui non è stato concesso di divenire (e che intuizione straordinariamente masochistica è far pesare sul corpo del film l'assenza di Béatrice Dalle che in questo modo sembra drenarlo della sua energia per lasciare il campo alla disperazione, senza aura, di Modine!). Matty sa che nella realtà non sarebbe in grado di perpetrare quei crimini che commette nei sogni, ma il fatto di viverli, anche se solo su un piano onirico, proietta un velo nero sul suo mondo.
Il cinema per Ferrara, in The Blackout lontano anche dal conforto della scrittura di Nicholas St. John, sembra essere proprio questo non vedere primario. Questo essere in un luogo sconosciuto e non sapere come muoversi. Un luogo che ci possiede e ci annichilisce («cazzo, sembra di stare in un film di vampiri» dice Matty mentre Mickey gira il suo porno lesbico). Il cinema dunque come una detection: ricerca. Scoprire ciò che è accaduto in quella zona di margine, scoprire quello che non siamo stati in grado di vedere e che pure è accaduto (Matty continua a sognarlo tutte le notti) e riportare alla luce (iniziare a fare del cinema) ciò che ha determinato l'erranza. Il cinema dunque come luogo di una perdita originaria; di un'assenza. Un attimo di tempo, racchiuso in un spazio minimo, da riconquistare allo sguardo. Una morte che deve rimorire per determinare la messa in moto del linguaggio; per continuare a nutrire un progetto di linguaggio. Solo con il cinema si può sorprendere la notte e raccontarla. Ma per farlo è necessario che essa ci assorba e strutturi il nostro dire. Per questo motivo The Blackout si offre come film limite. Il linguaggio non è altro che l'immagine di una perdita; un'immagine approssimativa di un mondo che brucia nel fuoricampo, oltre i bordi dell'inquadratura. Ferrara, in netta contrapposizione con il cinema postmoderno, continua fare cinema con i materiali della realtà. La sua personale lotta con il mondo la pratica attraverso un conflitto incessante con l'informe cui disperatamente tenta di dare corpo. Non a caso anche The Blackout usa il genere, ancora una volta il noir, come schermo protettivo. Matty cerca se stesso. Cerca di incastrare se stesso. Le donne, una volta superato il principio d'individuazione, si offrono a lui come un eterno femminino ossessivo, incarnato in modo inquietante nelle fattezze della straordinaria Béatrice Dalle. Ma a differenza di altri suoi film, The Blackout sembra indicare che l'unica vera tragedia della cultura contemporanea è l'impossibilità stessa di pensare una tragedia che si faccia carico delle problematiche del tempo presente. Per cui il regista è esiliato nella vocazione che si è scelto: produrre immagini, dire, mostrare.
The Blackout dunque è un estenuante cortocircuito che si attua lungo un imperativo morale: (continuare a) fare del cinema. Dunque prendere una posizione nei confronti del mondo. Non a caso l'intervallo della parziale convalescenza etilica di Matty è all'insegna di una "neutralità" espressiva che il critico/cineasta Olivier Assayas ha definito mirabilmente come «oscenità della vita quotidiana». Tra questi due estremi vive dunque The Blackout: un vuoto pneumatico di disperazione (non a caso nel film è possibile leggere in filigrana un omaggio al Hitchcock di La donna che visse due volte) che cerca la propria redenzione come linguaggio. Cinema. Ma per affrontare questa prova non basta voler scovare se stessi nel buio che determina la messa in scena. Bisogna prendere una posizione nei confronti delle immagine che il buio rivela. Non a caso Mickey, vive avvolto dalle tenebre del suo studio di postproduzione. Altro che la wendersiana The End of Violence. Il cinema è The Beginning of Violence. Una violenza perpetuata nei confronti di se stessi e del mondo: per Ferrara sembra che solo in questo modo sia possibile avanzare una richiesta di ammissione in esso. Il cinema dunque è una rivelazione. La violazione da parte della luce del buio; di quel buio che nutre e alleva nel proprio seno il cinema stesso. Quindi il compito del regista è di profanare ciò che determina la sua stessa esistenza in quanto produttore di immagini. È qui che si gioca la dimensione morale del lavoro di Ferrara che con The Blackout scopre tutte le sue carte. Ferrara ritorna sui luoghi del suo film più odiato, quel Oltre ogni rischio che abbandonò nelle mani della Vestron per iniziare la lavorazione di King of New York. Una Miami accecante nella quale barcollano corpi sudati sulla cui pelle scintilla un sudore alcolico che sembra rallentare i riflessi e le parole. Una Miami sulla quale la notte cala come una promessa di perdizione, puntualmente mantenuta. Eppure il sole, frontale, forte, aggressivo, che rischia quasi di disorientare anche il ferrariano più motivato, non permette di vedere nulla. Dove tutto è chiaro ed evidente non c'è nulla da scoprire. Anche New York subisce lo stesso trattamento cromatico. Non resta quindi che tornare a Miami e precipitarsi nella notte. E quando Matty stappa la prima bottiglietta di Beefeater si ha l'impressione che più che bere stia invocando i demoni dell'Averno che si prepara ad attraversare. Non c'è scampo: l'unico modo per vivere è di guardare in faccia all'orrore che ci abita e ci scuote. Non si può far finta che questo non esista: bisogna verificare se si è realmente in grado di commettere ciò che compiamo nei sogni. È chiaro che per Ferrara questa è l'unica motivazione che continua a tenere in vita il suo cinema. Quando Matty viene messo di fronte alle immagini del suo Blackout, Mickey che aveva ripreso tutto con la sua videocamera onnipresente, lo umilia violentemente. Lo ingiuria in tutti i modi e gli urla la sua incapacità di vivere con la consapevolezza dei suoi atti. «Impara a vivere con te stesso». Ma di fronte alla rivelazione Matty crolla. Non riesce a reggere il peso delle immagini. «Sei solo una fottuta star di Hollywood! Impara a vivere, pezzo di merda!» Mickey sa che le immagini sono parte integrante del mondo e non si fa nessuna illusione. Lui fa del porno. Il porno: dispositivo di riproduzione (macchina da presa) e corpi che fanno ciò che il cinema tradizionale si è sempre rifiutato di mostrare: gli organi genitali al lavoro. La consapevolezza di Mickey, e il suo vantaggio nei confronti di Matty, deriva da questo essere un cineasta primitivo. Come un Dziga Vertov del porno monta e rimonta corpi in modo che possano proiettare all'infinito il desiderio dell'immagine di gente che scopa. Il cinema è due ragazze che scopano davanti alla macchina presa incitate da un regista cocainomane. Il cinema non può far altro che riprodurre ciò che accade davanti ai suoi obiettivi. Per questo motivo è necessario che Matty impari a vivere con la consapevolezza dei propri atti. Il cinema non sostituisce più al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri. Eppure questa volontà prometeica di Ferrara di svelare la materia di cui è fatto il cinema è essa stessa una dichiarazione di resistenza. Il cinema esplode. Quando evade dalle stanze della sua veglia funebre si frantuma sotto la spinta centrifuga del reale. Ma Ferrara è lì, pronto a coglierne i minimi movimenti. Si ostina a catturarne ogni palpito a costo di inenarrabili sofferenze (i racconti di Béatrice Dalle di quello che accadeva sul set sono molto indicativi a questo proposito…). Ma solo in questo modo, forse, si può ancora sperare che si compia il miracolo che il Jean Luc Godard di Soigne ta droite ha così sintetizzato: « …vedendo questo silenzio l'Uomo volle anche lui aprire la bocca per un grido muto di orrore. Ma vedendo ancora questo silenzio, quasi prima di averlo visto, non lo vede già più. È perché un'ultima volta la notte raccoglie le forze per vincere la luce. Ma è alle spalle che la luce colpirà la notte. E dapprima dolcissimo, come se non volesse spaventarlo, il mormorio che l'Uomo ha già percepito tanto tempo fa, oh, tanto tempo fa, assai prima che l'Uomo esistesse, il mormorio ricomincia».
The Blackout
REGIA: Abel Ferrara;
con Matthew Modine (MATTY), Dennis Hopper (MICKEY), Béatrice Dalle (ANNIE), Claudia Schiffer (SUSAN), Sarah Lassez (ANNIE 2), Steven Bauer, Nancy Ferrara.
USA, 1997. DURATA: 99'.
Mercoledì 15 febbraio, ore 3:30 Italia 1.
come o dove è possibile recuperare i racconti di Beatrice Dalle a proposito del suo rapporto col set di the blackout?