"I fiori di Kirkuk” di Fariborz Kamkari

i fiori di kirkukCoproduzione di un’atipica triade di nazioni, Iraq/Italia/Svizzera, a opera del regista iraniano autore del romanzo omonimo, I fiori di Kirkuk propone un viaggio intimista nell’Iraq di Saddam Hussein negli anni ‘80, quando nessuna esistenza privata, in particolare per una donna, poteva concedersi il lusso di non seguire un percorso politicamente, pubblicamente determinato

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i fiori di kirkukCoproduzione di un’atipica triade di nazioni, Iraq/Italia/Svizzera,  ad opera del regista iraniano autore del romanzo omonimo, I fiori di Kirkuk propone un viaggio intimista nell’Iraq di Saddam Hussein, negli anni ‘80, quando nessuna esistenza privata, in particolare per una donna, poteva concedersi il lusso di non seguire un percorso politicamente, pubblicamente determinato. A maggior ragione, quando si tratta di una giovane dottoressa iraquena, laureata in una università italiana, che tornando in patria intrisa di educazione europea, ha ormai interiorizzato quella giusta distanza che le permette di osservare il  proprio paese con senso critico.
La vicenda ruota attorno alla ribellione di Nejla, al suo impeto umanitario indissolubilmente legato alla relazione con un altro giovane medico conosciuto in Europa. Le origini curde del ragazzo impediscono ai nostri Romeo e Giulietta medio-orientali di coronare il loro amore, mentre la crudele politica di Hussein affibbia loro l’etichetta di traditori perché dediti a prestare soccorso medico ai ribelli. I tentativi di indipendenza della ragazza sono regolarmente abortiti da un ufficiale follemente innamorato che escogita espedienti di vario genere per convincerla a sposarlo, le ricorda l’importanza di rispettare la famiglia, la vergogna di disonorarla. Nejla però, più che divorata da dilemmi morali, sembra interamente proiettata alla liberazione dell’amato –accetta l’incarico di medico per il governo esclusivamente per ritrovarlo-, guidata in un destino predestinato da eroina tragica greca. La psicologia monolitica dei personaggi si riflette in una struttura narrativa senza acuti picchi di interesse ma costellata di facilonerie lacrimevoli, private di coinvolgimento emotivo dell’usura dell’utilizzo secolare, in una scacchiera in cui ognuno recita a memoria il proprio ruolo e, quando non lo fa, non se ne rintracciano ragioni profonde,  moventi interiori.  E non è certo la recitazione elementare o lo stile pseudo documentaristico (imbarazzanti le finte ricostruzioni di filmati d’archivio) a venire in soccorso, nonostante la fotografia risulti nel complesso piuttosto curata, ma non particolarmente originale.
L'opera sembra ripercorrere passo dopo passo le tappe recentemente tracciate dalla Miral di Julian Schnabel, ma privandole persino del coinvolgimento personale che trapelava dalle vicende di quest’altra giovane eroina araba. Un film per un Grande Pubblico che continua, tristemente, a venire sottovalutato, o peggio, educato male.
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    Un commento

    • Certo che ci vuole davvero un bel coraggio a paragonare I fiori di Kirkuk, non completamente riuscito, ma onesto e ben fatto, con il pessimo e disonesto Miral che fa del male non solo a chi ama il cinema, ma anche a chi cerca di capire qualcosa del mondo che ci circonda.