I misteri del giardino di Compton House, di Peter Greenaway

L’esordio nel cinema (anti)narrativo del regista gallese funziona come paradigma di tutta la sua espressione artistica, tra influenze pittoriche, allegorie e supremazia dell’immagine sul racconto

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Tra i cineasti che si sono formati nel campo dell’arte figurativa, pochi hanno avuto la capacità di tradurre l’estetica pittorica di partenza in un’espressione puramente (anti)cinematografica come Peter Greenaway. Eppure, nonostante questa propensione alla traduzione/decostruzione linguistica, in tutta la sua arte serpeggia un particolare senso di idoneità all’immagine in movimento, che la porta ad individuare nei soli spazi del grande schermo la sua dimensione più naturale e organica. È così, allora, che a quarant’anni dalla prima distribuzione in terra britannica, il film con cui Greenaway esordisce nel cinema di finzione dopo l’incursione nel mockumentary, cioè I misteri del giardino di Compton House, acquisisce immediatamente la funzione di testo paradigmatico. Di opera-cardine di una intera parabola espressiva, che riassume in sé quell’insieme di codici e di ramificazioni grammaticali con cui il regista gallese arriverà alla definizione di un immaginario filmico liminale. Teso, sin dal principio, tra gli universi e i retaggi artistici più variegati e interagenti.

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Ancor prima di arrivare alle allegorie sceniche de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) o del controverso The Baby of Mâcon (1993) Greenaway sa già che la compenetrazione tra realtà figurative affini deve partire dalle analogie estetiche che li contraddistinguono. Ed ecco che I misteri del giardino di Compton House si snoda agli occhi dello spettatore come una serie coesa di tableaux, di “tavole” o “riquadri” che dialogano con ambedue le forme della pittura e del cinema, e in cui a prevalere è la supremazia del potere plastico dell’immagine su quello del racconto. Un approccio propriamente anti-narrativo, che sedimenta le sue tracce anche sul piano dell’intreccio. La storia di un pittore arrivista, Mr. Neville (Anthony Higgins) a cui l’aristocratica Mrs. Herbert (Janet Suzman) commissiona una serie di 12 ritratti della propria magione in cambio di continui favori sessuali è, in questo senso, solo l’incipit per uno scambio tra più espressioni estetiche. In cui Greenaway, alla stregua di un alchimista, fa rientrare un po’ di tutto: dall’implosione grottesca dell’aristocrazia inglese di fine 17º Secolo alle influenze artistiche di De La Tour e Vermeer – e quindi Barry Lyndon – fino ai codici narrativi del murder mystery in stile Agatha Christie.

E analogamente alle sue opere più mature, ogni scena de I misteri del giardino di Compton House si lega alla successiva per mera osmosi figurativa. Come in un libro di paesaggi, non c’è continuità narrativa alla base dei singoli scenari/riquadri. A fungere da legante è la decostruzione sistematica della composizione narrativa del racconto, unita ad un diffuso senso di atemporalità dello spazio scenico. La magione in cui sono confinati i personaggi sembra essere ritagliata al di fuori della realtà del tempo, quasi come se galleggiasse in un ambiente altro, lontano dal periodo storico in cui è inserita. Eppure Greenaway non smette mai di gettare lo sguardo all’Inghilterra contingente: struttura le relazioni tra aristocratici secondo le stesse etichette comportamentali della società esterna, e ambienta il film – non a caso – nel 1694, anno in cui, tra la morte della co-regnante Mary e la fondazione della Bank of England, il paese viene travolto da cambiamenti colossali. Si arriva così alla definizione di quell’estetica bulimica, che in quattro decadi ha portato la poetica del regista a giocare con le stesse regole del cinema, senza compromettere il suo statuto iconico di fondo. Proprio perché, in Greenaway, la contaminazione con gli influssi pittorici è sempre protesa all’allegoria: al racconto indefesso e mai filtrato della (nostra) realtà.

Titolo originale: The Draughtsman’s Contract
Regia: Peter Greenaway
Interpreti: Anthony Higgins, Janet Suzman, Dave Hill, Anne-Louise Lambert, Hugh Fraser, Neil Cunningham, Michael Feast, David Gant
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 108′
Origine: UK, 1982

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (3 voti)
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