I molti volti dell'eroe: Jet Li

Paragonato a Bruce Lee, non ne possiede l'alone epico. Accostato a Jackie Chan, non ne eguaglia il carisma. Eppure Jet Li non è solamente un ottimo atleta marziale, quanto figura centrale del nuovo cinema asiatico; in lui grazia e velocità si fondono, in un movimento perenne di equilibri.

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Come attore Jet Li esordisce nel 1982 in Shaolin Temple, uno dei primi film della Repubblica Popolare Cinese che tornasse a mostrare le arti marziali sullo schermo dopo il pluridecennale bando, prima repubblicano, poi comunista, che in quel genere di pellicole vedeva un tipo di svago pericoloso. Ma Jet Li, nato nel 1963 a Heibei, nei dintorni di Pechino, all'epoca era già un'icona nazionale, conosciuto da milioni di cinesi per le sue imprese atletiche. Li Lian Jie aveva infatti iniziato a otto anni a praticare il wu shu, disciplina di combattimento favorita dal governo in quanto incentrata sull'armonia dei movimenti, più che sulla forza fisica. Sotto la ferrea supervisione del suo maestro, Wu Ben, Li era diventato un prodigio di coordinazione e maestria, superando selezioni massacranti e vincendo più di un riconoscimento nazionale. Tanto che nel 1974, dopo un allenamento estenuante che prevedeva anche lo studio dei costumi occidentali, fu uno dei pochi bambini a volare negli Stati Uniti con la delegazione cinese, nel generale clima di disgelo di quel periodo, esibendosi di fronte al presidente Richard Nixon. Il suo ingresso nel mondo del cinema coincise con un processo di riscoperta delle tradizioni nazionali che convogliò nelle palestre e nei templi centinaia di giovani desiderosi di imitarlo. Se Li aveva idealmente accettato di partecipare al film solo per promuovere la pratica del wu shu, si ritrovò invece nella veste di star, riconosciuto e imitato in tutto il paese. Nonostante la naturale timidezza, non si tirò indietro e recitò in una manciata di altre pellicole simili, tutte co-produzioni con Hong Kong: Kids from Shaolin, Martial Arts of Shaolin, Born to Defend – da lui stesso diretto.

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Se la storia fosse tutta qui, avremmo un ottimo atleta con qualche trascurabile apparizione cinematografica. L'evento che al contrario catapulta Jet Li sulla scena asiatica è l'incontro con Tsui Hark, avvenuto negli Stati Uniti, dove l'atleta sperava di ottenere la cittadinanza: il poliedrico, geniale regista fiuta le enormi potenzialità del ragazzo e lo convince a partire alla conquista di Hong Kong, piuttosto che sfidare Hollywood. Il sodalizio è inizialmente stentato: The Master, del 1989, è davvero poca cosa, tanto che, pur lanciato nel 1992, stenta a trovare un pubblico. Il secondo tentativo al contrario non delude. Once Upon a Time in China, uscito nel 1991, consacra Jet Li quale icona marziale, simbolo dell'orgoglio cinese, visione di un passato mitico che si trasforma in un presente di riscatto. La sua interpretazione dell'eroe leggendario Wong Fei Hung, medico e maestro marziale vissuto nel Guandong nel XIX secolo, già protagonista di decine di pellicole a partire dal dopoguerra, è sorprendente per padronanza drammatica e presenza scenica. Il corpo di Li diventa oggetto contundente di cristallino equilibrio, simbolo di leggerezza e forza interiore. I suoi movimenti sono il perfetto esempio di unione di grazia e concretezza, rappresentando in tutto e per tutto l'unità e l'eredità della cultura cinese in una modernità troppo spesso sentita come opprimente e straniera. Il successo è immediato, e Jet Li è ormai conosciuto ovunque. Il secondo e il terzo episodio della saga confermano il successo (tanto che il secondo è in alcuni punti addirittura superiore all'originale), successo irrobustito dalla partecipazione a un'altra epica leggendaria, il secondo capitolo di Swordsman, produzione di Tsui Hark ingentilita dal tocco aereo di Ching Siu-tung (quello di Storia di fantasmi cinesi, per intendersi).

Inizia un periodo altalenante. La misteriosa rottura con Tsui Hark (che per gli ultimi due capitoli della sua saga si ritrova sguarnito dell'attrazione principale) porta Jet Li nella sfera di influenza di Wong Jing, regista d'assalto iconoclasta e sfrontato, che parodizza la maschera da eroe che l'attore si è costruito con un paio di commedie marziali allampanate, Kung Fu Master (Le sette spade della vendetta) e Last Hero in China. L'influenza di Wong Jing permette comunque l'incontro tra Jet Li e due dei coreografi più quotati. Da un lato Corey Yuen lo dirige nel dittico Fong Sai Yuk, altro eroe popolare cinese: in un contesto da commedia, il regista si inventa coreografie danzanti sbalorditive, tanto da essere copiate un po' da tutti (Xena compresa). Dall'altro Yuen Woo Ping lo sfrutta nella sua mitizzazione della nascita del tai chi. Qui Jet Li veste i panni storico-fiabeschi del monaco che, allontanato dal tempio, comprende intimamente le leggi di natura fino a portare alla luce uno stile di movimenti in armonia con l'ambiente circostante, tra pratica filosofica e prassi. Pur non completamente riuscito, Tai Chi Master (noto anche come Twin Warriors, nella versione internazionale rimaneggiata dalla Miramax) è un tour de force nella spettacolarizzazione del movimento quale catalizzatore di emozioni, con le leggi della fisica che risplendono in tutta la loro aleatorietà: corpi che saettano, danzano in bilico sul vuoto, rotolano e si rialzano sfruttando la propria forza interiore.

Intanto, tra il 1992 e il 1994, Jet Li partecipa a oltre dieci pellicole. Eppure emblematica rimane soltanto una. Non tanto per la qualità (basterebbero i film sotto l'egida di Tsui Hark), quanto per il contesto: l'uomo e l'attore si confrontano direttamente con il mito. Fist of Legend, diretto da Gordon Chan, è infatti il remake di Fist of Fury/Dalla Cina con furore, deflagrare della cometa Bruce Lee sul pianeta Terra. Stuoli di coreografi, caratteristi e volti noti del passato si prestano a una macchinazione nostalgica proiettata nel futuro. Jet Li indossa una maschera dolente opposta alla rabbia repressa di Lee, e tramuta l'originale voglia di rivalsa in ondate di lirismo. È proprio in questo modo, paradossalmente, che Li si affranca definitivamente dallo scomodo confronto con l'ombra del passato. Jet Li d'ora in avanti sarà sufficiente a se stesso: non è più un emulo di Bruce Lee, ed è ormai chiaro a tutti che il suo tipo di fisicità è di stampo opposto a quella keatoniana di Jackie Chan. Non disdegnando le meraviglie dei trucchi scenici e del wirework (i fili tramite cui gli attori possono compiere acrobazie spettacolari), ma mantenendo al centro uno stile cristallino, Jet Li è ormai un corpo-cinema completo, spendibile in ruoli drammatici come comici, per i quali sfrutta la sua connaturata timidezza (specie nelle scene romantiche). Il problema è far sì che i produttori se ne rendano conto. E il passaggio negli Stati Uniti, da questo punto di vista, non aiuta. Hollywood l'ha voluto semplicemente per le sue qualità atletiche e, almeno fino ad oggi, si è dimenticata del resto.

Partendo da Arma Letale 4, nell'obbligatorio (a quanto pare) ruolo da cattivo, passando per i successivi progetti, di tutti i Jet Li possibili viene difatti sempre privilegiato il più scontato, l'eroe d'azione. E se la qualità è discontinua – inguardabili Romeo deve morire e The One, già meglio Kiss of the Dragon – la paura era che Li rimanesse incastrato in queste vesti, davvero troppo strette (non sta succedendo lo stesso a Jackie Chan, ormai ombra di se stesso, film dopo film?). Per fortuna la sovraesposizione portata da Hero gli garantisce uno spiraglio, con la benedizione di Luc Besson, già mente dietro Kiss of the Dragon. Danny the Dog, scritto e prodotto dal regista francese, ma affidato a Louis Leterrier, che si era fatto notare con The Transporter, non è solo veicolo per le impressionanti capacità marziali di Li -finalmente- ma anche e soprattutto film completo, risolto tra l'estetizzazione pulp e il rigore drammatico. Pensando alla trama del film, si tratta di un vero e proprio riscatto. Adesso le strade per Li sono davvero aperte: sperando che qualcuno non lo costringa, di nuovo, a mettere il collare.

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