I passeggeri della notte. Sentieri Selvaggi intervista Mikhaël Hers

La nostra intervista esclusiva a Mikhaël Hers per parlare del suo ultimo film, presentato a Roma in occasione del Rendez-vous – Festival del Nuovo Cinema Francese dopo il passaggio alla Berlinale

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Abbiamo incontrato il regista francese, a Roma in occasione del Rendez-vous – Festival del Nuovo Cinema Francese, per discutere con lui del suo ultimo film, I passeggeri della notte, presentato all’ultima Berlinale.

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Il film inizia nel 1981, anno dell’elezione di Mitterand. Un anno di grande cambiamento per la Francia, così come per la protagonista Elisabeth, come se ci fosse una sorta di parallelismo tra la vicenda privata e la storia politica del paese. Come mai hai scelto di ambientarlo proprio negli anni ’80?

Quando si fa un film ci sono sempre delle tematiche molto concrete come qui ad esempio potrebbe essere la radio nel cuore della notte, fare il ritratto di una donna che si è appena separata o filmare un quartiere particolare di Parigi. E poi ci sono delle cose più astratte ma che per me sono le più importanti, che guidano davvero tutto il resto e che determinano il linguaggio di un progetto. E in questo caso è l’immersione negli anni ‘80, che sono gli anni della mia infanzia e ho provato a restituire questa nostalgia, ho provato a catturare qualcosa di questa sensazione che mi ha ispirato l’epoca, anche se tutto questo l’ho reinterpretato, queste citazioni, questi colori. Sentivo il bisogno di rispondere ad una domanda, oltre alla voglia di fare un film che potesse essere contemporaneo, che parlasse di Parigi dopo l’attentato. Era importante per me fare un film che fosse ambientato in un periodo precedente. Rispetto alla domanda sulle elezioni di Mitterand, non è un film politico, ma metterle nel film ha permesso di mettere a fuoco delle immagini molto suggestive per i francesi, che appartengono alla grande Storia, ma allo stesso tempo penso che ciascuno abbia un rapporto intimo con questi ricordi, quali situazioni e quali sentimenti provocano a ciascuno. Dunque permetteva di combinare queste due dimensioni. Vediamo Elisabeth in questa macchina, c’è giubilo, è un momento di gioia intorno, ma non sta davvero prendendo parte all’evento, come se in questa famiglia ci fosse già un germe di disillusione.

Nel film sono presenti diverse immagini e filmati d’archivio. Puoi spiegare com’è avvenuto il lavoro di selezione, a quali archivi ti sei rivolto e che significato aveva per te inserirle all’interno del film?

Per cercare di catturare il sentimento del periodo storico avevo l’impressione che la ricostruzione, per quanto fosse rigogliosa, avesse sempre un lato un po’ artificiale. Mi sono detto che per donare questa sensazione che ha ispirato il periodo storico ci fosse bisogno di passare da una combinazione di diverse forme di immagini. Dunque abbiamo girato con diversi supporti, la maggior parte sono archivi di anonimi, non sono cose conosciute a parte le immagini dell’elezione. Sono immagini che abbiamo trovato in maniera casuale, all’Institut National de l’Audiovisuel, in Francia. Ma ci sono anche molte cose che abbiamo filmato noi con una piccola macchina da presa, una Bolex, che è una macchina meccanica con cui si gira a mano, che rende l’impressione che siano immagini d’archivio. Dunque la coabitazione di questi diversi formati dona quest’eco, questa sensazione dell’epoca molto più che una ricostruzione.

In una scena del film i figli di Elisabeth vanno al cinema e compare sullo sfondo la locandina di Le notti della luna piena di Rohmer. Ci sono poi altri riferimenti cinematografici ad esempio a Rivette. Perché hai scelto di citare proprio questo film e che importanza hanno avuto questi due registi per il tuo lavoro?

Ho scelto questi film di Rohmer e Rivette più in relazione all’attrice Pascal Ogier, che recita in entrambi. C’era questa figura che si mimetizza come Talulah, questa giovane ragazza emarginata. Quindi non è un vero e proprio omaggio a Rohmer e a Rivette, volevo più che altro ricreare un rapporto a specchio tra i film. Ma è vero che adoro Rohmer, è un cineasta che amo enormemente, che ha contato molto perché è riconoscibile, nelle musiche, nel modo di riprendere, aveva una sensibilità e un linguaggio molto particolari. Ha inventato un modo di parlare che si riconosce subito, che può risultare prezioso ma può anche essere un po’ respingente per qualcuno. C’è una forma di grande semplicità nella sua maniera di girare, nella psicologia dei personaggi, la loro solitudine e trovo tutto questo molto affascinante e d’ispirazione.

L’impressione che si ha guardando i tuoi film è che il vero punto di vista, quello più attivo e partecipe degli eventi sia sempre quello dei giovani, in questo sono i figli di Elisabeth, ma anche la stessa Talulah, che rappresenta un momento di rottura, di cambiamento, anche se è solo un’adolescente. Ma penso anche ad Amanda in Quel giorno d’estate. Cosa ne pensi?

Molto spesso ci sono più generazioni nei miei film, ci sono dei genitori, degli adolescenti, dei bambini. Sono film più corali, quindi è vero che c’è una sovrapposizione dei punti di vista, ma non lo faccio in maniera teorica, è la storia che mette in scena dei personaggi di età differenti, che hanno il loro modo d’essere, di parlare, di incarnare qualcosa. Il fatto che possano testimoniare qualcosa è un risultato a cui arrivo in maniera molto intuitiva. Ho sempre un po’ di problemi coi film che si rivendicano politici, cioè che sono politici perché sono saturi di un discorso politico, perché hanno un messaggio formulato secondo un mood politico. Dunque in questo effettivamente il mio non è un film politico, né per Elisabeth né per i ragazzi. Ma la politica può ritrovarsi in maniere differenti, per esempio il personaggio di Elisabeth può essere considerato come una donna militante, nella maniera che ha di emanciparsi, nella maniera che ha di porsi davanti ai suoi figli, la generosità che mostra accogliendo Talulah, nel suo senso della casa e della famiglia. Per me tutto questo è politico. Non è un discorso politico, ma è qualcosa di fondamentalmente politico.

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