I racconti della luna pallida d’agosto, di Kenji Mizoguchi

È il più simbolico tra i film del regista. Ne esemplifica la poetica, conducendo il discorso sulla subalternità della condizione femminile verso i lidi del metafisico. Una pietra miliare del cinema

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Sotto alcuni aspetti I racconti della luna pallida d’agosto rappresenta un unicum nella filmografia di Mizoguchi, un corpo all’apparenza estraneo dall’abito stranamente esotico. Per quanto il film, nella forma come nell’approccio narrativo, si ponga in una posizione di assoluta continuità con l’istanza comunicativa delle opere storiche del regista – per cui la rappresentazione della condizione femminile nel Giappone feudale è sempre al servizio di un ragionamento sullo stato attuale di quella stessa condizione, in un ponte sincronico tra passato e presente – l’inedita contaminazione di uno sguardo realistico con le atmosfere, le sfumature e le pulsioni oniriche del racconto fantastico, consentono al film di esplorare nuovi orizzonti estetici, arrivando (paradossalmente) ad un dialogo con i codici dell’horror soprannaturale. Un approccio senza pari, che allo stesso tempo manifesta un naturale rapporto dialogico con gli altri film del regista, in merito sia ai codici di messa in scena – uso esteso dei piani sequenza e dei long takes, con una netta prevalenza del montaggio interno sul découpage classico – sia al sottotesto critico/politico, ovvero a quel modello narrativo che ha reso Mizoguchi (insieme a Mikio Naruse) il più grande cantore dei soprusi e delle ingiustizie sociali di cui è oggetto la condizione femminile alla luce della storia (patriarcale) nipponica.

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Al centro de I racconti della luna pallida d’agosto, infatti, risiede sempre una visione critica della subalternità della condizione femminile, ma osservata da una prospettiva altra. Diversamente da La vita di O-Haru (1952), Le sorelle del Gion (1936) o da Elegia di Osaka (1936), dove la tragiche eroine dominano non solo l’immagine, ma si configurano come i pilastri significanti delle narrazioni, qui la figura femminile si pone sempre come il corpo critico del racconto, assumendo però una posizione più periferica. Sono qui i due uomini, Genjurō (Masayuki Mori) e Tobei (Eitarō Ozawa) a condurre le redini della storia, le cui sfrontate azioni – approfittano del clima di tensione bellica del periodo Azuchi-Momoyama (1573-1603) per ricercare un insperato profitto – generano gravissime conseguenze, di cui le rispettive mogli, Miyagi (Kinuyo Takana, l’attrice feticcio di Mizoguchi) e Ohama (Mitsuko Mito) sono le vittime incolpevoli. Nell’impostare un racconto sugli irreparabili abusi a cui la società patriarcale sottopone la donna, Mizoguchi articola la narrazione su due binari diversi, che riflettono le traiettorie (e i destini) divergenti dei protagonisti, separati dal genere quanto dalla condizione esistenziale. All’aumentare delle fortune dei personaggi maschili, corrisponde, di fatto, la “discesa agli inferi” di quelli femminili. Maggiore è l’ambizione di Genjurō e Tobei, che li porta (in apparenza) a scalare la piramide gerarchica – il primo entra nelle grazie della nobildonna Wakasa (Machiko Kyō), il secondo corona il sogno di diventare un samurai – minore è la possibilità di salvezza per le due donne. Un contrasto figurativo dall’esito disumano, i cui sviluppi narrativi decretano un’avvilente realtà in cui nessuno si salva realmente. Per quanto ai personaggi femminili sia riservato il destino più infelice – Miyagi viene prima derubata, poi uccisa da alcuni soldati, mentre Ohama è costretta a prostituirsi, in un percorso analogo a quello di molte eroine mizoguchiane, dalle protagoniste di Le donne della notte (1948) alle geishe de La musica di Gion (1953) fino ad arrivare alle cortigiane de La strada della vergogna (1956) – anche quelli maschili si scontrano con gli spietati esiti della realtà. Mentre Tobei, una volta compreso lo stato emotivo della moglie, riconosce l’iniquità della sua posizione, Genjurō diviene il veicolo della matrice polemica, il testimone dell’interazione metafisica tra due mondi. Quella che egli crede una persona reale (Wakasa), è in realtà uno yure, un fantasma, uno spirito soprannaturale di cui Mizoguchi si serve come strumento d’accusa. Ella è la materializzazione vivente delle colpe dell’uomo (e per estensione degli uomini giapponesi) che accecato dall’ambizione e dall’avidità, sacrifica con le sue azioni il destino della donna a lui devota. Un messaggio critico feroce, che riflette l’essenza della poetica del cineasta, e a cui la cornice onirico/fantastica dona una vitalità dagli esiti disarmanti.

L’importanza culturale de I racconti della luna pallida d’agosto, però, non è ravvisabile “solamente” nelle sue ineguagliabili vette estetiche. Insieme a Rashōmon è stato il film che ha contribuito ad aprire le porte dell’Occidente alla cinematografia nipponica, rappresentandone uno dei punti più alti, sia per struttura narrativa, sia in termini di penetrazione nell’immaginario. Una memorabile opera di sintesi, che a dispetto delle inedite tinte metafisiche, rappresenta insieme il cuore della poetica del regista e il paradigma di riferimento per il cinema fantastico tout court. E per quanto la domestica di Wakasa (e il film) si ostini ad affermare che “agli uomini è concesso sbagliare, alle donne no”, è logico supporre che Mizoguchi, nel dar vita al suo lavoro più lirico, l’errore non lo abbia neanche mai contemplato.

Titolo originale: Ugetsu Monogatari
Regia: Kenji Mizoguchi
Interpreti: Kinuyo Tanaka, Machiko Kyo, Masayuki Mori, Mitsuko Mito, Eitaro Ozawa, Sugisaku Aoyama, Mitsusaburo Ramon, Ryosuke Kagawa, Kichijiro Ueda, Shozo Nanbu, Kikue Mori, Ryuzaburo Mitsuoka, Ichiro Amano, Eigoro Onoe, Saburo Date, Fumihiko Yokoyama
Durata: 96′
Origine: Giappone, 1953

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
4.5 (4 voti)
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