I sette samurai, di Akira Kurosawa
È il testo sacro del cinema giapponese. Si fa spazio di (ri)mediazione di tutti i codici culturali del Sol Levante, dal bushidō al collettivismo, per inserirli in un crudo e maestoso affresco umanista

“Chi difende tutti, difende sé stesso. Chi pensa solo a sé, si distrugge”. È a partire da uno degli aforismi più iconici de I sette samurai che è possibile iniziare a sondare il terreno di un testo antropologicamente denso, che da sempre fa delle sue strutture grammaticali lo spazio di convergenza dei codici etico-culturali di un popolo intero. Nella frase di Kambei Shimada (Takashi Shimura) risiede di fatto l’anelito drammatico del racconto, e insieme la matrice con cui (de)codificare i segreti nascosti dell’autoctonia nipponica. Anche perché l’incontro/scontro di società e mitopoiesi che si viene qui a creare, lascia emergere l’idea di comunità che dominava nel Giappone feudale, e da cui il film dipana tanto gli snodi tematici, quanto quelli puramente simbolici. Le incoraggianti parole del samurai diventano perciò il catalizzatore di un progetto comunicativo più ampio, in cui la natura collettivista del messaggio si offre al pubblico alla stregua di una superficie riflettente: come specchio cioè del particolare processo di auto-identificazione dell’individuo giapponese, su cui si strutturano tutte le connessioni interne al racconto.
Si parte così dall’enfasi sul collettivismo, centro d’indagine della parabola sacrificale dei protagonisti. Nel raccontare una storia umanista, in cui gli indifesi contadini di un piccolo villaggio assoldano un manipolo di guerrieri per proteggersi dall’assalto dei briganti, Kurosawa fa de I sette samurai uno spazio di analisi antropologica, dove l’interdipendenza del popolo nipponico è costantemente (ri)mediata attraverso la lente del cinema. Ogni gesto, azione o scenario si apre qui ad un livello di lettura più profondo, proprio perché il film fa convergere lo spirito solidale dei 7 rōnin (samurai senza padrone) e il comunitarismo dei poveri contadini verso uno stesso (e inconfutabile) assunto: l’impossibilità di raggiungere un’autosufficienza esistenziale da parte dell’individuo giapponese.
Se nel paese del Sol Levante il concetto di “persona” separata e individuale non ha posto in società (specialmente in tempi pregressi) allo stesso modo i personaggi de I sette samurai rifuggono da qualsiasi nozione di singolarità. In tutto il film, i protagonisti rinunciano alla propria soggettività in favore di una condivisione collettiva di interessi, sintetizzati in una ragnatela di relazioni interdipendenti (e altamente stringenti) tale da avvolgere nel suo manto omologante tanto gli indifesi contadini, quanto coloro che hanno giurato di proteggerli. Non sorprende, perciò, che nelle varie sezioni del lungometraggio – special modo nell’atto centrale, interamente dedicato alla costruzione dei rapporti umani in vista dell’imminente battaglia – Kurosawa sia attento a legare i destini di tutti i personaggi ad uno stesso filo esperienziale: tramite cui il regista individua quel fenomeno culturale che contribuisce a definire il ningen, l’umano, come prodotto di un “rapporto”, lontano dalla singolarità intrinseca dell’individualismo di stampo occidentale – poi riscontrabile nelle riflessioni proposte dal maestro ne La sfida del samurai e in Anatomia di un rapimento.
Ma ne I sette samurai la frase iniziale di Shimada ci rende conto di un orizzonte ancora più vasto, in cui il collettivismo è il varco filmico da cui transitano un’ampia serie di ragionamenti, atti a collegare l’immaginario nipponico alla poetica stessa di Kurosawa. Quei codici che qui vengono progressivamente esaltati in funzione autoctona, come la dialettica tra uchi (dentro) e soto (fuori) che associa la paura dei contadini nei confronti dei briganti al terrore del popolo giapponese verso l’alterità, sono sempre diretti verso quelle sfumature umaniste che da Sanshiro Sugata (1943) a Madadayo (1993) attraversano l’intera filmografia del cineasta. Gli obblighi che i contadini contraggono rispetto ai samurai – secondo il concetto di on – portano così il racconto ad empatizzare con ambedue le “caste”, senza giudizi né moralismi di facciata.
Entrambe le fazioni, se ci pensiamo, includono personaggi ridotti alla medesima condizione di emarginati, con i rōnin che inseguono le vie del bushidō come occasione per riempirsi lo stomaco, e gli “indifesi” contadini che nascondono i propri beni per paura che vengano depredati di cibo (e di donne). Ma questi comportamenti non offuscano comunque la sete di rivalsa dei personaggi, spinti a (ri)cercare un proprio riscatto esistenziale nel confronto con le ingiustizie sociali a cui sono brutalmente assoggettati. Ed è così che I sette samurai trova il suo afflato poetico nelle più deflagranti esplosioni di umanità, nella celebrazione di un’immolazione comunitaria che risalti il valore spirituale dei “dimenticati”. È nella scena in cui Kikuchiyo (Toshirō Mifune) stringe tra le braccia il figlio di un contadino, o nella sequenza in cui i due giovani amanti perdono la verginità mentre all’esterno infuria la battaglia, che risiede il senso di un film senza eguali, teso ad intrecciare la purezza (quella vera) dei sentimenti con la turpitudine di un fango (quello societario) ritenuto indelebile.
A 71 anni di distanza dal suo debutto, I sette samurai continua perciò a mostrare lati inediti, avvolto da un fascino che trascende il tempo e lo spazio (culturale, fisico, cinematografico) consentendo ai suoi temi di vivere e (ri)vivere grazie ai numerosi remake di cui il film è stato di volta in volta oggetto (a partire da I magnifici sette). Ma l’irripetibile influenza esercitata negli anni su innumerevoli generazioni di filmmaker non rende da sola l’impatto cultural-industriale generato dall’opera sin dagli esordi nelle sale. Nel 1954 la magnum opus kurosawaiana ha fatto registrare il secondo miglior incasso al box-office giapponese (dietro solo alla terza parte di Always in My Heart di Hideo Ōba) oltre ad essere stata eletta dall’autorevole rivista Kinema Junpo tra i film migliori della stagione, in un anno d’oro per la cinematografia nipponica – pensiamo a Gli amanti crocifissi e L’intendente Sansho di Mizoguchi (con cui ha condiviso a Venezia il Leone d’argento), Ventiquattro occhi di Kinoshita, Il suono della montagna e Late Chrysanthemums di Naruse e il primo Godzilla della Toho. E sull’onda del successo globale di Rashōmon, il film ha avuto anche la forza di attraversare, quasi indenne, i coercitivi tagli dei distributori occidentali, per poi (ri)tornare verso la fine degli anni ’80 alla sua durata originaria, che ne ha sancito la definitiva e inveterata immortalità poetica: posizionando I sette samurai sull’altare dei testi sacri della cinematografia mondiale.
Leone d’argento alla 15° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia
Titolo originale: Shichinin no Samurai/七人の侍
Regia: Akira Kurosawa
Interpreti: Toshiro Mifune, Takashi Shimura, Yoshio Inaba, Seiji Miyaguchi, Minoru Chiaki, Daisuke Katō, Isao Kimura, Keiko Tsushima, Yukiko Shimazaki, Kamatari Fujiwara, Yoshio Kosugi, Bokuzen Hidari, Yoshio Tsuchiya, Kokuten Kodo, Eijiro Tono, Jun Tatara, Atsushi Watanabe, Toranosuke Ogawa, Isao Yamagata, Kichijiro Ueda, Sojin Kamiyama, Gen Shimizu, Keiji Sakakida, Shimpei Takagi, Shin Otomo, Toshio Takahara, Noriko Sengoku
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 207′
Origine: Giappone, 1954