Ibi, di Andrea Segre

Un documentario che mette sullo stesso piano lo sguardo del regista e quello della protagonista in cerca di un riconoscimento dallo Stato Italiano

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L’identità nazionale è data dall’istituzionalità burocratica o dal sentimento collettivo? Questa era una delle domande centrali che aveva suscitato la visione sequenziale allo scorso festival di Locarno di Granma di Alfie Nze e Daniele Gaglianone e di Ibi di Andrea Segre. Una questione che, visti i recenti risvolti dell’attualità, sembra ancora più centrale, ed urgente, nel momento in cui quest’ultimo sta per fare il suo debutto in sala. Aiutato dalle stesse immagini girate dalla protagonista IIbitocho Sehounbiatou, il regista ha seguito il percorso della donna nata a Benin ed immigrata in Italia. Ibi aveva lasciato nel suo paese i tre figli sperando che la sua partenza potesse garantire loro un futuro migliore invece, coinvolta come corriere in un traffico di droga, ha passato tre anni in prigione prima di finire in un limbo burocratico a Castel Volturno dove ha passato gli ultimi anni della sua vita ad aspettare invano un permesso di soggiorno. Non è mai tornata nel suo paese ma non è neanche stata una cittadina italiana, come si dovrebbe definire allora Ibi?

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Per tutta la comunità bastava semplicemente il suo nome per collegarla al suo mestiere di fotografa e filmmaker, come amava definirsi, ma anche volontaria nelle tante associazioni che assistono gli immigrati come lei. Un porre costantemente l’accento al suo ruolo attivo da lavoratrice nelle dinamiche quotidiane della città che ha fatto distogliere l’attenzione sul suo travagliato percorso con le istituzioni e sulle difficoltà iniziali che l’hanno portata a percorrerlo. Questo non è da intendere come indice di qualche negligenza, ma di una scelta ben precisa di Segre che, nel momento stesso in cui decide di dividere equamente le sue riprese con quelle fatte dalla stessa Ibi, sancisce l’inserimento definitivo della donna all’interno di un contesto. Quasi una rinuncia allo status di unico regista a favore di uno sguardo interno (ed inedito) sulle cose, una rarità rispetto ad una più tipica superficialità tematica che spesso corrisponde ad una scrittura di immagini per il cinema drammatico molto precisa. La qualità strettamente visiva del documentario ha dovuto correre i rischi di questo sdoppiamento ma si è guadagnata una testimonianza utile per rispondere alla domanda di cui sopra. Una risposta che Ibi non è mai riuscita ad ottenere in vita.

Titolo originale: id.
Regia: Andrea Segre
Origine: Italia, 2017
Distribuzione: Zalab
Durata: 64′

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