Iconografie digitali. Perdersi nelle Backrooms

Quello degli spazi “liminal” è forse l’immaginario più rappresentativo della contemporaneità. Grazie alle community, il folklore digitale nasce in rete e prolifera attraverso il surplus cognitivo

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Su Internet circola ormai da un mese la notizia della definitiva localizzazione della posizione dell’edificio in cui è stata scattata la foto (da un post nel 2011, poi rilanciata nel 2019; via 4chan) della prima originale Backroom. Attraverso il sito Internet Archive quindi la community è riuscita a risalire a un blog del 2003 che descriveva nel dettaglio la ristrutturazione di un negozio HobbyTown a Oshkosh, nel Wisconsin. E nonostante sul blog ogni altra immagine risulti scomparsa, al contrario è ben visibile la foto della Backroom originale, insieme ad altre foto dello stesso interno da diverse angolazioni – questo dettaglio perturbante aggiunge non poco spessore alla storia. Ad oggi risulta che la struttura sia stata interamente ristrutturata, e la tinta giallognola delle luci al neon ora è stata rimpiazzata da una luminosissima pista di go-kart. Con questa scoperta, secondo molti utenti, si chiude definitivamente un era durante la quale il mito delle Backrooms ha proliferato ininterrottamente e durante la quale il fenomeno ha saputo generare innumerevoli prodotti collaterali. Ma andando in ordine, che cosa intendiamo quando parliamo di Backrooms? E perché questo mito è così centrale per comprendere la nuova realtà digitale?

Stando alla definizione più conclamata, il mito delle Backrooms (tradotto letteralmente: stanze sul retro) nasce nel 2019 quando un utente anonimo su 4chan scrive: “se non si sta attenti e si noclippa fuori dalla realtà nei punti sbagliati, si finisce nelle Backrooms, dove non c’è altro che puzza di vecchia moquette umida, la follia della luce gialla, l’infinito rumore di fondo delle lampade a neon fluorescenti che ronzano fortissimo, e circa seicento milioni di miglia quadrate di stanze vuote, disposte a caso, in cui rimanere intrappolati. Dio vi salvi se sentite qualcosa che si aggira nelle vicinanze, perché sicuramente lei ha sentito voi.

Per capire il fenomeno è necessario sottolineare l’accostamento delle Backrooms al mondo videoludico, data la presenza del termine noclippare: in italiano traducibile come “scivolare via”, questa parola si riferisce a un particolare momento durante una sessione di gaming che ha a che fare con la presenza di bug o glitch; nolippare significa scavalcare i confini imposti dallo sviluppatore e ritrovarsi all’esterno della mappa designata all’esplorazione. Quindi ritrovarsi fondamentalmente in una sorta di limbo, nel quale si approda per un errore sistemico. Nel caso delle Backrooms il ritrovarsi in questo ambiente liminale rappresenta un dislocamento dalla realtà, un’alienazione dal mondo materico che ci porta a rimanere incastrati in questo sconfinato garbuglio labirintico di stanze tutte uguali, con la presenza costante del ronzio delle luci al neon e l’odore fisso di moquette umida.

Questa delle Backrooms è una fenomenologia figlia delle creepy pasta, vale a dire quelle storie folkloristiche nate e diffuse su Internet (soprattutto nei primi anni 2000) costantemente aggiornate e riscritte dagli utenti sottoforma di racconti, illustrazioni, videogiochi e cortometraggi – vedi la voce analog horror. Nel caso delle stanze sul retro però esistono delle specifiche non accumunabili alle creepy pasta. Le Backrooms hanno un collegamento diretto tra realtà e immagine; pensando banalmente al fatto che il fermento prolifera da un’immagine condivisa su Internet. Il potere fondativo risiede proprio nell’evocazione dei sentimenti che l’osservazione è in grado di scaturire, sentimenti facilmente accostabili all’esoterismo. L’utente che guarda e i feels cambiano, i mood evolvono.

Questo gigantesco fenomeno delle Backrooms è stato un punto di partenza di moltissimi prodotti, pop o meno che siano, che generalmente guardano parecchio alla pratica del found footage in diverse forme. E proprio a proposito del found footage, questa è una tendenza è esplosa formalmente nel 1999 con l’ormai cult The Blair Witch Project. Tra i nomi più mainstream che hanno saputo portare all’attenzione del grande pubblico il fenomeno delle Backrooms poi il cortometraggio dello youtuber e VFX artist Kane Pixels, The Backrooms (Found Footage). Guardando al panorama cinematografico invece, l’esperimento più riuscito (non nella forma quanto piuttosto nelle intenzioni) è sicuramente la trasposizione del videogioco indie horror Five Nights at Freddy’s, di Emma Tammi.

Come risposta alla notizia dell’identificazione del luogo reale della prima Backroom – così come alla proliferazione di innumerevoli prodotti collaterali – la community è nettamente divisa. Perché da un lato abbiamo chi appoggia questo racconto, in fin dei conti iconografico, di una “corrente” digitale. Dall’altro invece si pensa che il passaggio ad altre forme inquinerebbe la spontaneità e la forza portante del fenomeno; ovvero la crescita di un folklore alimentato dal surplus cognitivo (teorizzato da Clay Shirky).

Ma andando a parare oltre la semplice analisi di un movimento, questo degli spazi liminali annette parecchi altri discorsi legati alla contemporaneità. A partire dal modo in cui si accede alle Backrooms, il noclippare, che indica una sorta di dissociazione cognitiva involontaria. Ed oltre la plausibilità dell’inesistenza legata a milioni di stanze tutti uguali, vi è questa fortissimo collegamento con il virtuale, l’etereo. Un’assenza che diviene tangibile tramite la costruzione collettiva e che è in grado di toccare sentimenti profondamente intimi – si ricordi che il consumo di immagini di spazi liminali suscita nella quasi totalità dei casi emozioni nostalgiche, perturbanti, quasi melanconiche. Il non-spazio delle Backrooms in ogni caso è quasi sempre originato dalla diffusione di foto di spazi realmente esistenti. Ecco che quindi c’è un ennesima rilettura della realtà, degli spazi e delle architetture. Il più celebre caso in questo senso è sicuramente L’Holiday Inn dell’aeroporto di Heathrow. Una facciata di un hotel aeroportuale nel quale vediamo il soffitto del giardino coperto per motivi di insonorizzazione. La praticità e la logica lasciano quindi il posto a diversi nuovi punti di vista più creativi, scelti dagli utenti a non più imposti dall’alto, bensì distribuiti e user free.

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