If I Had Legs I’d Kick You, di Mary Bronstein
Un puro film A24 che accende i riflettori sulla genitorialità, in cui l’isterismo metropolitano dei Safdie si riversa nel vissuto di una madre sopraffatta dal suo ruolo. BERLINALE75. Concorso

Come si fa a tenere insieme tutti i pezzi quando non c’è più nulla a tenere unita te? Con If I Had Legs I’d Kick You, Mary Bronstein ridefinisce i confini della maternità contemporanea, al tempo della sua rimessa in discussione sociale, politica e individuale, riportando l’attenzione sul sovraccarico che spetta alle donne nella gestione familiare e gli strascichi psicologici, fisici ed emotivi che questo comporta.
Diciassette anni dopo Yeast, sembra che la regista non abbia abbandonato la tensione nervosa del suo debutto alla regia, rivestendo questo nuovo film di una coltre sempre più asfissiante, che non lascia scampo e non permette di rifiatare nemmeno un istante, mentre la macchina da presa si chiude come una morsa sui primi piani degli interpreti. If I Had Legs I’d Kick You diventa allora la testimonianza in diretta di una catastrofe davanti alla quale non si può far altro che assistere, impotenti o inconsapevoli. Linda è una madre sopraffatta dalla gestione della figlia (di cui Bronstein sceglie di non mostrare mai né il volto né il corpo per intero) affetta da una misteriosa malattia che la costringe a nutrirsi con un sondino gastrico, tenendola attaccata ai macchinari giorno e notte e obbligandola a costanti visite in ospedale.
La donna crolla sotto il peso dello stress emotivo e psicologico, come il soffitto della sua camera da letto che cede per una perdita d’acqua, inondando l’appartamento e costringendo lei e la figlia a spostarsi temporaneamente in un motel poco distante. Non supportata dal marito, lontano per lavoro, asfissiata dalle richieste dei suoi pazienti, costretta a fare terapia di gruppo con altre madri che vivono situazioni simili alla sua, l’unica via di fuga a un’esistenza sempre più in frantumi sembrano essere le notti trascorse a bere e fumare in compagnia di James, un A$AP Rocky “ripulito”, che davanti al vortice di autodistruzione in cui sta precipitando la donna decide all’ultimo di tirarsi fuori.
Il ritmo sempre più ansiogeno, gli strettissimi e dolorosi primi piani sul viso di Rose Byrne, i dialoghi incalzanti rimandano al cinema accelerato dei fratelli Safdie, tra Good Time e Diamanti Grezzi (non a caso Josh compare tra i produttori del film) aderendo completamente agli stilemi di A24, come la fotografia nebulosa e il tono grottesco che si muove tra dramma personale e ritornanti gag comiche (come quella col parcheggiatore), acuite dalla presenza del volto di Conan O’Brien, a cui, per contrapposizione, Bronstein affida una delle battute più crude e strazianti del film.
Certo, l’isteria metropolitana qui si riversa tutta nel vissuto personale, in una quotidianità familiare stressante e nevrastenica, fatta di spostamenti in macchina nel traffico, ritardi, incombenze lavorative e telefonate concitate, rese ancora più estenuanti dall’onnipresenza della voce della figlia, che martella la madre di richieste, lamenti e urla e che sembra via via appartenere sempre più a una dimensione mentale. Forse la regista lavora troppo meccanicamente sui raddoppi, e la metafora della voragine è esageratamente scoperta, ma ritrae con angosciante precisione la sensazione che si prova quando la realtà della genitorialità si manifesta come tutto ciò che non dovrebbe essere.