IFFR 2025 – L’oro del Reno. Intervista a Lorenzo Pullega

Abbiamo incontrato il giovane regista dell’unico film italiano in concorso all’International Film Festival di Rotterdam 2025. Tra sconfinamenti, incubi d’infanzia e la necessità di perdersi


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L’International Film Festival di Rotterdam 2025 si avvia verso la conclusione mentre L’oro del Reno di Lorenzo Pullega viene presentato in concorso nella sezione Big Screen Competition. L’opera prima del giovane regista emilliano racconta le molteplici storie che si svolgono intorno a un fiume, il Reno italiano, fratello più piccolo del grande Reno dei miti nordici. Il viaggio dalla sorgente appenninica alla foce adriatica sarà un susseguirsi di incontri con personaggi bizzarri e storie del folklore emiliano, tra atmosfere oscure e apparizioni fantasmatiche. Abbiamo incontrato il regista Lorenzo Pullega per approfondire i temi del film e le sue origini.

È chiaro come questo sia un film molto personale per te, nel quale hai messo in scena i luoghi dove sei cresciuto. Da dove nasce l’idea del film e che esperienza è stata per te girare nel tuo luogo natale?

L’idea nasce nel 2018 e fin da subito avevo immaginato l’escamotage di un “finto” documentario che parlasse, attraverso il fiume Reno italiano, di alcune storie immaginate e altre invece reali. Tutto nasce dal caso di omonimia con il grande Reno dei miti nordici, quindi un concetto di doppio che mi interessava moltissimo, con le cose in comune tra i due ma soprattutto le grandi differenze che potevano trasformarsi in un viaggio dalla sorgente alla foce. In seguito è arrivata l’immagine del gruppo di giapponesi appassionati di Wagner che si ritrova per errore sul Reno emiliano. L’idea interessante per me era quella che anche in questo piccolo fiume fosse possibile perdersi, non solo fisicamente. Nel film è presente un sorta di sprofondamento, come perdersi in un bicchier d’acqua.

Il film è un flusso continuo di storie e racconti molto diversi tra loro, alcune chiaramente inventate e altre sembrano più realistiche. Come avete lavorato su questo e da dove provengono queste storie?

La sequenza riguardo i bambini fantasma annegati nel Reno è una storia che proviene dalla mia infanzia, si tratta di una fatto avvenuto negli anni ’70. Quando ero bambino mi veniva raccontata per tenermi lontano dalle rive del fiume. La considero un’immagine personale che mi lega molto a questo film. Ci sono altre sono storie totalmente inventate oppure raccolte durante il percorso e magari modificate. In ogni caso c’era la voglia di restituire una mitologia un po’ attinente al vero e un po’ falsa riguardo al nostro fiume. La presenza del regista/narratore invisibile con la voce di Neri Marcorè mette tutto un po’ in dubbio, cioè, quello che stiamo vedendo è vero oppure no? Con Roberto Romagnoli e Federico Montevecchi, gli sceneggiatori con cui già avevo collaborato nei miei corti precedenti, ci siamo divertiti molto a costruire questo flusso di storie, anche perché non c’è una vera e propria consequenzialità, l’obiettivo era un crescendo emotivo, quasi musicale. La scelta delle storie è stato il lavoro più importante nella fase di scrittura, perché ne avevamo raccolte molte, ma alcune non erano “giuste” o comunque non si inserivano bene nel flusso del film.

Fin dalla prima sequenza si percepisce un tono fiabesco, onirico, che accompagna il film. Come se ci trovassimo in un luogo incantato, nonostante in altri momenti ci sia un approccio realistico, quasi antropologico.

Era assolutamente mia intenzione dare questo tono al film. Tutto quello che è materiale nel film, come il fiume, la terra, doveva essere il punto di partenza. Ma soprattutto doveva essere chiaro lo sconfinamento, tra ciò che è vero e ciò che potrebbe non esserlo. La nostra idea fin dal principio era quella di un fiume più immaginato che realmente vissuto.

Da una storia all’altra cambia l’atmosfera ma anche il genere e il linguaggio cinematografico. Si passa dai toni horror e thriller alla commedia all’italiana con marcato accento romagnolo, come nel caso della sequenza del Popolo del Sole. Il film si presenta come un mosaico molto variegato. Come hai lavorato da questo punto di vista?

Come hai detto anche tu l’idea era quella di comporre un mosaico di diversi toni e contrasti interni che dessero un flusso particolare ragionando poco sulla consequenzialità e più sulle variazioni di tono. Quindi un fiume che raccoglie umanità varia e sentimenti vari, come un affresco variegato. La sequenza del Popolo del Sole nasce dal vero, perché esiste realmente un gruppo di persone che si incontra per prendere il sole tutto l’anno. Si incontrano vicino casa mia, l’ho scoperto da poco e ho passato diverso tempo con loro perché ero affascinato da questo loro desiderio di passare del tempo insieme semplicemente prendendo il sole. Ci sono persone di ogni tipo e di ogni età, anche con un passato molto difficile alle spalle. Lì ho conosciuto Eva Robin’s e la battuta che lei dice nel film l’ha detta anche nella realtà, così come altre battute nel resto del film.

Oltre all’aspetto narrativo e stilistico, anche dal punto di vista fotografico i contrasti sono molto marcati, da momenti totalmente oscuri si passa a scene di luce piena. Come siete riusciti ad amalgamare un materiale così eterogeneo?

La grande sfida di questo film è stata proprio l’unità, soprattutto riguardo la fotografia e il personaggio del regista come narratore. Ogni sequenza doveva avere la propria specificità, ma a livello di movimenti di macchina e di punto di vista cercavamo unità. Ad esempio non abbiamo mai utilizzato droni, per noi era importante che il fiume fosse sempre ripreso ad altezza uomo, non dall’alto, a meno di ponti. C’è solo un dolly in una scena, ma anche lì si parte da una prospettiva umana. Cercavamo una grande fluidità di movimenti, con un punto di vista orizzontale, mai verticale, almeno nei movimenti. In questo modo si creava una sorta di gioco con lo spettatore, a causa di continue false soggettive del regista invisibile. Ogni sequenza aveva le proprie esigenze, ad esempio è stato molto difficile gestire la luce perché è un film composto per la maggior parte da scene in esterni. In quel caso il direttore della fotografia Alessandro Veridiani ha fatto un grande lavoro. Avevamo comunque l’obiettivo di restituire un senso di magia. Nel caso della sequenza dei bambini fantasma del Reno, abbiamo deciso di girarla con l’effetto notte per creare un senso di mistero e devo dire di essermi trovato benissimo. Mi sono innamorato di questa tecnica che già apprezzavo da spettatore, soprattutto riguardo al cinema orientale.

Tra i produttori del tuo film figurano i Manetti Bros, un duo che conosciamo bene come registi ma che negli ultimi tempi ha prodotto diverse opere prime o seconde, qualcosa che in Italia non è sempre facile. Penso soprattutto a Margini di Niccolò Falsetti e La guerra del Tiburtino III di Luna Gualano. Com’è stata la tua collaborazione con loro?

Loro sono davvero fantastici, pensavo fosse un film molto difficile da produrre, soprattutto per un esordio. Con loro collaboro da diverso tempo nell’ambito delle location, dai tempi di L’ispettore Coliandro e in seguito per la trilogia di Diabolik. Da diverso tempo si parlava di miei progetti da regista, dei corti e altri che non sono mai stati realizzati. Poi quando è arrivata l’idea per L’oro del Reno si sono subito innamorati del progetto, sia loro che Piergiorgio Bellocchio, così abbiamo iniziato a parlarne seriamente. La cosa che ci tengo a dire è che ci hanno lasciato una grandissima libertà rimanendo sempre presenti, e di questo li ringrazio. Per noi è stata una collaborazione ideale sotto diversi punti di vista. Loro hanno una grande attenzione a produrre registi giovani ma anche molto diversi, penso proprio a Niccolò Falsetti che con loro sta preparando il suo secondo film.

So che stai preparando il tuo prossimo film. Di che storia si tratta?

È una storia più classica dal punto di vista formale perché avrà un soggetto unico rispetto a questo film. È una fiaba ambientata d’estate in Emilia con protagonista un bambino che si trova ad assistere ad alcuni fatti inquietanti e macabri. Ancor più strano è il fatto che la nonna potrebbe c’entraci qualcosa. Il titolo provvisorio è Tante care cose.


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