IFFR51 – Vincitori e visioni sparse dal festival di Rotterdam 2022

Una panoramica dall’International Film Festival di Rotterdam, tra politica e rivoluzione, tra sogno e realtà, alla ricerca di mondi sorprendenti. Tiger Award al film paraguayano Eami di Paz Encina

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Il Festival Internazionale di Rotterdam per il secondo anno consecutivo è costretto a fare i conti con la pandemia e presenta una nuova edizione online, un metodo ormai diventato consuetudine e che troverà sempre più spazio in futuro in un mondo cambiato nel profondo. La gamma di proposte tra le tante sezioni è davvero ampia, tre sono competitive (Tiger Competition, Big Screen Competition e Ammodo Tiger Short Competition), alcune dedicate alle retrospettive (Amanda Kramer e Jiongjiong Qiu), altre ai titoli spuntati dal passato (Cinema Regained) o alle sorprese cinematografiche scovate in altri festival tra cui Serre-moi fort di Amalric o Qui Rido io di Mario Martone.
Il premio più prestigioso, il Tiger Award, è assegnato però sempre con il medesimo proposito, riservando l’attenzione non tanto e non solo al carattere sperimentale delle opere, quanto al loro modo di essere pionieri di un messaggio attuale ed antico, ed alla capacità di riempire lo sguardo con tematiche ricche di elementi per arricchirlo. Una descrizione a cui aderisce in mondo naturale il vincitore, Eami di Paz Encina, indagine eccitata di una terra primigenia, fusa nell’alba dagli antenati e protesa ad un equilibrio instabile. Nel fragore degli elementi, del quale si percepisce la potenza sopratutto grazie allo straordinario lavoro compiuto sul sonoro, si riversano le frasi di quella che potrebbe essere considerata una guida, lo spirito narrante di un connubio vecchio di secoli. L’abisso libero del principio urla nella cenere, soffia tra gli alberi e solleva le foglie, annuncia la furia ed il cammino da compiere per giungere ad un nuovo inizio. Quel percorso sussurra le orme da seguire, il sentiero sacro della guarigione, frequentato dal canto incontaminato degli animali.

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Quindici i titoli selezionati, naturalmente tra vari paesi. L’unico olandese in concorso è Met Mes di Sam De Jong, una storia di ingiustizia, sopruso e soprattutto di bugie costruita su colori flashati e toni grotteschi, figlia di una color correction furibonda, immaginata nella precisione dei contorni, nelle linee pulite degli interni e nel carattere geometrico delle inquadrature. Una realtà alterata ed aumentata a discrezione parodica, per un uso quasi canzonatorio dell’ipnosi mediatica, indotta dall’abitudine al pregiudizio verso le categorie tacciate di minacciare l’ordine pubblico. Le differenze sociali, scomparsa in apparenza la lotta di classe in un appiattimento su una linea indifferenziata di accettazione supina, diventano il bisogno di Yousef di procurarsi degli occhiali da sole a costo di rubare. E quell’azione è sufficiente per scalfire il panorama perfetto e raccontare di un modello meno efficiente del previsto, ma piuttosto incline a nascondere la violenza dietro un paravento di illusione narcisistica e descrivere il razzismo, e l’inclinazione egoista della società, mai pronta a riconoscere uno sbaglio. Il razzismo e le sue terribili declinazioni ricompaiono spesso. In forma direttamente discriminatoria in Achrome di Maria Ignatenko, una vicenda ambientata in regime di guerra sulla collaborazione trovata dai nazisti durante l’occupazione degli stati Baltici. La persecuzione degli ebrei è l’apice del delirio disumano, il resto sono ombra e notte, in un monastero trasformato in ricettacolo del male. Uno stato di sospensione malvagia, una nebbia presagio di sventura e la vocazione per una preghiera sussurrata per proteggersi dagli spiriti. Anche in un altro titolo in concorso ritorna il problema razziale, Excess will save us di Morgane Dziurla-Petit, vincitore del Tiger Competition Special Jury Awards, il premio della critica (insieme al film cinese To Love Again di Gao Linyang). Un film attento a confondere la finzione con la realtà in una sorta di consapevolezza meta-cinematografica. Tutto parte dall’espansione di un cortometraggio, ramificando attorno al nucleo familiare della regista, per l’occasione anche attrice, intrighi e paure di un piccolo paese dimenticato nel Nord della Francia, in una nazione finita a vivere nella psicosi di un attacco terroristico. Il risultato è un interessante documento di comprensione sull’impatto dell’attualità e l’enorme potere di contagio dell’informazione virale. Una rete tentacolare, allungata fino a toccare il vuoto di un territorio dove è ancora possibile abbandonarsi e fissare in lontananza la noia, senza trovare troppi ostacoli davanti agli occhi.

Un’altra famiglia, stavolta dalla Cina, è protagonista in Silver Bird and Rainbow Fish di Lei Lei, ma qui, invece di tracciare un ritratto del presente come nel film francese, si sceglie di ricostruire partendo dal passato, dalle voci degli anziani e dalle immagini di vecchie fotografie sbiadite, colorata e animata artigianalmente. Il ricordo attraversa la storia ed il loro destino rivive le immagini del cambiamento, memoria di una svolta epocale, il periodo della rivoluzione.

Cambiando latitudine, Yamabuki di Juichiro Yamasaki è un racconto multivoce ambientato in una piccola città di una zona rurale del Giappone, intessuto dai sogni intrapresi e poi abbandonati, dall’attivismo giovanile deciso a lottare per una giusta causa, dalle incomprensioni per amore o per una frase non detta, tutto collegato da un filo esile. Nella quiete e nella patina rumorosa dello scenario naturale, deflagrano i silenzi, i pericoli hanno il volto innocuo della negligenza, e le soluzioni sono in uno spazio adiacente, sotto il velo della paura di confessare il proprio bisogno di affetto. Malintzin 17 di Eugenio Polgovsky è in qualche senso l’esempio involontario di cinema pandemico. Girato in Messico nel 2018, prima della prematura scomparsa del regista. La camera cattura per una settimana, dal suo appartamento al secondo piano, le situazioni e gli accadimenti ordinari raggiungibili a vista d’occhio, come un piccione appollaiato sotto la finestra, in un nido costruito sopra i fili dell’alta tensione, impegnato a covare le uova. Insieme alla figlia Milena, una bambina spigliata e vivace, riflette di tematiche come l’ambientalismo o il bisogno di proteggersi dalle minacce, in un dialogo spontaneo dettato dallo stupore e dalla curiosità. Mentre il tempo segna l’alternanza del giorno e della notte, ed accompagna le azioni del quartiere nel muovere un ingranaggio pieno di incognite nel suo incessante ripetersi.

È israeliano uno dei due titoli invece tratti dalla letteratura, Kafka for kids di Roee Rosen, una interpretazione fantastica della Metamorfosi dentro un tableaux vivant. Per la forma ed il tono l’intento ha qualcosa di fiabesco ed una costruzione teatrale già dalle inquadrature. Gli estratti dal testo si alternano ai canti dei personaggi in costume, nel finale l’immagine si normalizza e l’ultima parte è riservata al tentativo di riferire il messaggio del romanzo alla scottante situazione dei territori occupati, alla guerra, ed alle conseguenze del conflitto infinito tra Israele e Palestina. Il trovatello (Der Findling), dello scrittore tedesco Heinrich von Kleist, è invece il racconto che ha ispirato il film The child, girato dalla coppia Marguerite de Hillerin e Félix Dutilloy-Liégeois. Le meravigliose scenografie, tra i chiostri ed i campi, fino ad arrivare a lambire il mare, fanno da sfondo perfetto al dramma, lasciando morire sui silenzi degli attori il gesto atterrito manipolato dal destino. La scuola portoghese dei film storici è evidente, senza arrivare a scomodare De Oliveira. Seppure assorbito da minore coinvolgimento politico, qualche vicinanza si rileva con A Portuguesa, di Rita Azevedo Gomes, altro ritratto d’epoca, non a caso adattamento per lo schermo di una novella di Musil, nel difficile tentativo di ricomporre i suoi personaggi disintegrati dal malessere. Il cileno Roberto Doveris porta invece in concorso il suo terzo lungometraggio, Proyecto Fantasma. Pablo, aspirante attore, ha dei problemi, non molto rari tra i giovani, il denaro e l‘amore. La casa del protagonista è il centro della vicenda, e le sue mura accolgono uno spaccato di una generazione impegnata ad inventarsi influencer di qualunque cosa, costantemente alle prese con l’apparente bisogno della approvazione degli altri, ma devastata da un abisso molto personale. Un film senza picchi, votato a trascurare gli strappi dello stupore, per agitare i fantasmi con un sibilo nervoso e lasciarlo esplodere in un campo di mistero.

Parlando di segreti e politica, in un mondo colonizzato da un controllo capillare, The Dream and the Radio (Le rêve et la radio) di Renaud Després-Larose intercetta un onda febbrile, e traccia un racconto cospirativo in infrarosso tra neon e soli bruciati. L’immagine della lotta evoca un fuoco nervoso e genera una combustione interna, divampa nelle vite disilluse di una generazione ridotta a strumento, legato ad una struttura nascosta, minacciosa ed inquietante. Attivismo e rivoluzione passano sempre lì, nei versi dei poeti, nella voce di qualcuno che nessuno vuole ascoltare, nella pazzia di un tempo fatto per affrontare le fiamme senza bruciarsi. E le promesse sono la musica preferita da inserire nella playlist.
The Cloud Messenger (Meghdoot) di Rahat Mahajan si muove invece tra le nuvole di una storia sacra, nel destino che diventa maledizione. Dopo un prologo affondato nei tempi oscuri, sui primi passi della leggenda di Hanuman, la vicenda viene traslata in un collegio da qualche parte sull’Himalaya, dove alcuni ragazzi saranno i prescelti a guardare negli occhi del Dio, tornato sulla terra per trovare finalmente la sposa, e coronare un sogno di vendetta. Il film è regolato sul programma della scuola, fin quando le marce degli studenti e la ferrea disciplina sportiva vengono rotte dalle apparizioni di varie entità ed assume una dimensione cosmica. Un racconto di educazione sentimentale mistico, recitato spesso con il ricorso ai costumi tradizionali, che sospira parole antiche, sul corpo attonito di uno sguardo rivolto altrove, rapito dall’orrore. The Plains di David Easteal è un documentario girato quasi interamente con una camera all’interno di un’auto, che accompagna il protagonista lungo le strade trafficate di Melbourne, talvolta da solo, talvolta in compagnia di un collega. E mentre passa il reticolo urbano parla con la moglie, o con la madre, o ascolta la radio. Alle immagini dell’abitacolo si aggiungono quelle di un drone.

Il palmares è completato con il premio assegnato a Kung Fu Zohra nella sezione Big Screen, riservato ad un cinema di impronta più classica, un film che affronta la tematica della violenza domestica. Altri tre premi invece nella categoria dei corti, Ammodo Tiger Short, a Becoming male in the Middle-Age di Pedro Neves Marques, sulla infertilità di una coppia etero ed il desiderio di aver un figlio biologico di una coppia omo, disposta a sottoporsi ad una procedura sperimentale, al film di archivio Nazarbazi, uno straordinario documento storico su come il cinema iraniano ha rappresentato il bisogno di toccarsi di uomo e donna, dopo il divieto imposto dalla rivoluzione khomeynista, e il vampiresco anomalo Nosferasta: First Bite di Adam Khalil Bayley Sweitzer.

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