Il Bene Mio. Incontro con Pippo Mezzapesa e Sergio Rubini

In sala dal 4 ottobre il film del regista pugliese già presentato alle Giornate degli Autori di Venezia75. Mezzapesa lo racconta ai giornalisti romani insieme all’attore protagonista Sergio Rubini

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Il regista pugliese Pippo Mezzapesa, dopo l’esordio datato 2011 Il Paese delle spose infelici, torna al cinema il 4 ottobre con Il Bene Mio, già presentato alla 15° edizione delle Giornate degli Autori di Venezia, in evento speciale fuori concorso. L’anteprima col pubblico, invece, si terrà eccezionalmente domani al Cinema Paradiso di Amatrice, il comune distrutto dal terremoto due anni fa, esattamente come accade a Provvidenza, la “città fantasma” protagonista della pellicola. “Ci sembra molto più giusto, dopo Venezia, portare l’anteprima ad Amatrice e non a Roma, come invece si fa di solito – dichiara nella conferenza stampa Cesare Fragnelli, in nome di Altre Storie, produttori del film insieme a Rai Cinema – La nostra preoccupazione era che potesse apparire come un’operazione marketing. Per dieci giorni, anche la responsabile della comunicazione di Rai Cinema si è posta questo dubbio. Ma il nostro vuole essere solo un piccolo gesto di speranza per questi paesi“.

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Il profondo dolore provocato dalla perdita dei propri cari, in primis, della propria casa, come di tutti i propri beni materiali, diventati poi tanto preziosi per la memoria di ciascuna vittima di una simile catastrofe, è naturalmente alla base della storia e della psicologia dei protagonisti rappresentati ne Il Bene Mio. Ognuno decide di affrontare quel dolore, quel lutto, a modo suo e se da una parte, quindi, c’è il bisogno collettivo da parte della comunità di Provvidenza di dimenticare la tragedia e abbandonare in massa la città verso lidi nuovi e più sicuri, dall’altra c’è la volontà di Elia, il protagonista interpretato da Sergio Rubini, ultimo abitante della “città fantasma”. “Il film vuole raccontare la lotta di un uomo che non vuole abbandonare il suo paese. – esplica infatti il regista Pippo Mezzapesa Che ha deciso di elaborare il suo dolore attraverso gli oggetti che rappresentano la vita di ognuno. Vuole ricostruire una comunità, che invece ha voluto dimenticare“.

Elia/Rubini viene quindi osteggiato dalla comunità, proprio perché ultimo baluardo vivente di quei ricordi che preferirebbero invece vedere cancellati per sempre. Racconta in merito il regista: “Elia è convinto che non ci possa essere un domani, senza la conoscenza del passato. Ognuno in fondo, però, è animato da ragioni comprensibili. Anche il sindaco – interpretato da Francesco De Vito, presente alla conferenza – che vuole rimuovere con apparente rudezza tutto quello che è stato, in fondo lo fa perché non riesce a sostenere il peso del dolore. L’importante però è che la comunità riesca a ritrovarsi, insieme. Elia è come se fosse il pastore, che cerca in tutti i modi di ricucire una comunità che ha perso se stessa“. Un pastore, quindi, vitale e resistente fino alla fine, costruito in fase di scrittura, da Mezzapesa insieme allo stesso Rubini, per risultare lontano dal cliché dell’eremita burbero e misantropo: “È un personaggio che lotta, che combatte. – continua sempre l’autore – Non è il classico eremita, ma è vitale, solare, rifugge l’idea di morte e invece vorrebbe riportare la vita in quel luogo”.

La volontà autoriale di volersi distinguere dai soliti racconti italici del “dolore”, sembra essere condivisa da tutti gli interpreti, che a più riprese sottolineano l’autenticità delle idee e della visione del regista. In primis, Rubini, che dice di essersi affidato a Mezzapesa, appunto, per la sua “saggezza” e per il suo “sguardo unico“, piuttosto che per la sola sceneggiatura, che rivela di non leggere mai per scegliere un progetto:“riguardo al crollo del ponte a Genova, mi ha colpito che gli sfollati avevano un grande desiderio, di tornare negli appartamenti per recuperare le proprie cose. Come se fossero tanti piccoli Elia. Questo film ha tanti registri, ma quello sociale ci riguarda direttamente“. Teresa Saponangelo, che interpreta Rita, cara amica di Elia ed ex-maestra della scuola in cui insegnava anche la moglie del protagonista (luogo in cui Maria ha trovato tragicamente la morte il giorno del terremoto), la sceneggiatura invece l’ha letta eccome: “l’ho amata. L’ho letta in venti minuti. Sceneggiatura autentica, una verità, non avresti voluto cambiare niente. Aderiva perfettamente a dei sentimenti veri, realistici”.

Quello del rapporto tra cinema e verità è stato poi oggetto di un’interessante riflessione da parte di Rubini, che offre un ulteriore spunto e, forse, valore all’autenticità della pellicola: “È sbagliato confondere il cinema con la realtà. Poi ai Festival vincono i documentari. Ma il cinema non è realtà, non dev’esserlo“. Il Bene Mio sembra quindi ricercare emozioni vere, invece di storie reali. Si può inglobare in questo discorso la gestione del personaggio di Noor, interpretato da Sonya Mellah, ragazza straniera che diventerà ospite forzata di Elia; una gestione lontana dall’essere una mera operazione che strizza l’occhio all’attualità, alla retorica sull’immigrazione, cercando di raccontare i confini umani e non geografici: “Noor è un personaggio che fugge dal dolore, come tutti i personaggi di questo film – afferma Mezzapesa – Rientra nello stile di un film fatto di confini. Elia non riesce ad andar via dal paese, né ad entrare nella scuola della moglie, ma nel profondo desidera rompere quei confini. Mi piaceva l’idea di fare incontrare un personaggio che elabora il dolore con la staticità apparente e una che lo fa con la mobilità“. Di Noor infatti non sappiamo mai la reale provenienza, ma finiremo col conoscerne la destinazione, cercata strenuamente e ragione, probabilmente, della sua sopravvivenza fino a quel momento: “Per il ruolo, sono andata a ricostruire il racconto molto silenzioso dei miei genitori, attraverso le foto di quando hanno lasciato l’Algeria, perché i migranti non raccontano“.

Il Bene Mio è quindi un film fatto di sfide, tanto interne quanto esterne. A proposito delle prime, interviene il regista: “La sfida era raccontare un passato, senza mai vederlo. E l’altra sfida, raccontare la nuova vita della comunità di Provvidenza, senza mai far vedere quella nuova vita“. Le seconde, invece, sono quelle che derivano dallo stato attuale del nostro cinema che, secondo Rubini, è fatto al momento perlopiù di “un’estetica vacua degli ambienti degradati“. In un altro intervento, lo si vede rincarare la dose: “Perché non si fanno film come questo. Il merito di questo progetto è quello di essere un film unico. Noi negli ultimi anni abbiamo prodotto dei prodotti, opere da scaffale, seguendo l’abitudine di ripetere quella cosa che è andata bene. Abbiamo perso il gusto di sperimentare“. Sperimentare anche lontani dalla sala, soprattutto per tali logiche di mercato, può quindi essere una soluzione in questo senso. Ed ecco arrivare in conclusione, a tal proposito, un’importante apertura alla modernità e, tra le righe, ai nuovi mezzi di distribuzione dell’audiovisivo, come Netflix, che proprio a Venezia è stato grande oggetto di discussione: “La crisi è della sala, non del cinema: il cinema racconta una storia e tutti abbiamo bisogno di racconti, di senso. Far coincidere il cinema con la sala è sbagliato. Non è che quando si son chiusi i cinema a luci rosse, la gente ha smesso di eccitarsi“. Pro o contro Netflix, difficile dargli torto.

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