Il Brady. Intervista a Jacques Thorens sullo storico cinema parigino dei b-movie

Intervista a Jacques Thorens, autore del Brady, romanzo sulle “rocambolesche avventure dell’ultimo cinema dei dannati di Parigi”. Lo scrittore è stato ospite del recente Cinema Ritrovato a Bologna

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In occasione della XXXI edizione del Cinema Ritrovato abbiamo incontrato Jacques Thorens, autore del Brady, romanzo sullo storico cinema parigino specializzato in b-movie e z-movie e gestito per un periodo dal regista Jean-Pierre Mocky (dal 2011 è diventato un cinema d’essai). Il libro, pubblicato da L’orma editore con la traduzione di Marco Lapenna (che ha fatto un ottimo lavoro di adattamento dei titoli dei film), è un racconto divertente e a tratti incredibile di questo luogo leggendario, letteralmente abitato da spettatori ai margini della società: senzatetto in cerca di un posto per dormire durante il giorno, prostitute ed esibizionisti, omosessuali e, nelle prime file, qualche b/z-cinefilo. Ma è quando la narrazione si sposta dal buio della sala o dal bagno del Brady – altro luogo mitico – alla strada che l’opera si fa subito profonda e amara; del resto il cinema è un po’ questo: il riflesso di una realtà a volte poco piacevole.
All’incontro, moderato da Emiliano Morreale, è intervenuto Dario Argento, frequentatore abituale del Brady quando ancora aveva una sola sala: “Il libro, più che una storia di questo cinema, è un romanzo. Penso che alcune parti siano inventate da quanto sono bizzarre! Quando ci sono stato io non ho visto tutto quello che Thorens descrive, gente che addirittura cucinava o bivaccava in sala. Lui continua a dire che è vero… Comunque è una lettura molto divertente”.

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La mia prima domanda riguarda uno dei protagonisti del suo libro: il Brady, dove ha lavorato per tre anni come proiezionista. Com’è venuto a conoscenza

bradydi questo cinema? Sapeva della sua esistenza già prima di iniziare a lavorarci?
Non conoscevo il Brady. Avrei dovuto conoscerlo perché negli anni ’80 le riviste specializzate in cinema di genere ne parlavano, ma allora ero troppo giovane. Sapevo però che il regista Jean-Pierre Mocky era il proprietario e nulla più. Conoscevo il cinema per la fama, era una leggenda.

Quanto e come è cambiato il Brady negli anni? E qual è la situazione oggi a Parigi dei cosiddetti cinema di quartiere?
Praticamente tutto è cambiato: le poltrone, le sale, i film, il passaggio al digitale, il pubblico. Anche le persone che lavoravano al Brady sono cambiate. È diventato un altro posto. A Parigi si trovano cinema grandi, sale più piccole d’essai che ricevono finanziamenti dal governo, e ci sono cinema che stanno un po’ nel mezzo che cercano di fare qualcosa di diverso dal commerciale e dalla programmazione più ricercata.

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Come ha scelto la struttura del libro? Si tratta di una narrazione episodica, non lineare.
Quando inizi un romanzo è come un animale che cresce, che a volte si trasforma in qualcosa di buono altre volte in un mostro. Mi piaceva l’idea di raccontare le storie di più persone perché questo ti permette di vedere le cose non solo da un punto di vista. La prima difficoltà è stata tenere insieme situazioni che non sono connesse tra loro: in questo senso il Brady è il luogo che le riunisce tutte. Dopo è arrivata la scelta di fare grandi capitoli che racchiudessero le storie. E infine la fase di editing: alcuni punti sono stati tagliati perché troppo lunghi o se c’era qualche ripetizione. Così a volte mi capita di parlare di qualcosa di divertente, poi si passa a un tono diverso. Ai miei editor è piaciuto, hanno trovato che fosse un’idea originale. Un libro che si avvicina a questo è Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr., ma lì le storie sono separate benché racchiuse in un’unica area.

Ciò che mi ha colpito del suo libro è proprio il modo in cui mescola i due piani del racconto: quello del cinema, con la sua storia, e quello delle persone che lo hanno popolato, la maggior parte delle quali sono emarginati. Alla fine risulta una lettura divertente e al tempo stesso profonda. Come ha lavorato su quest’aspetto?
Inizialmente il libro era incentrato più sulle storie assurde delle persone che vivono per strada. Penso che fosse giusto raccontare il perché della loro condizione: da qui è diventato qualcosa di più profondo. Al tempo stesso c’era il cinema con il suo quartiere, il proprietario del cinema che era un regista, e i film particolari che vi kinopoisk.ruvenivano proiettati. Quindi ho creato una connessione tra questi due elementi, anche perché non era un luogo ben visto dalle persone che lo consideravano un cinema porno. In realtà facevamo cinema di genere: esistono ancora persone interessate in questo tipo di film, sono chiamate b-cinefili. Ad esempio quest’anno è uscito un libro su Bruno Mattei, che è considerato il peggior regista italiano. Eppure ad alcuni interessa il suo cinema e i suoi film, come Rats – Notte di terrore. Ed è divertente perché la maggior parte delle persone a cui chiedo non conosce Mattei. Penso che abbia fatto dei film non riusciti, mentre altri sono buoni anche se assurdi. Insieme a lui al Brady abbiamo proiettato le pellicole di Argento e Cronenberg. Anche loro avevano talento nella loro assurdità, ma soprattutto hanno avuto l’intuizione di non restare fermi a un genere e di sperimentare; questo è decisamente positivo.

Infatti non sono d’accordo con le persone che distinguono il cinema di “serie a” da quello di “serie b”. Per lei è lo stesso? Forse il mestiere del proiezionista l’ha aiutata ad avere uno sguardo diverso sul cinema…
Non so se fare il proiezionista aiuti ad avere uno sguardo diverso sul cinema. Avevo un amico proiezionista che diceva: “Mi basta guardare solo una scena del film e ti posso dire se il film merita o meno”. A volte mi chiedo cosa sia un film d’autore, a volte i film “brutti” possono essere talmente eccentrici che ti piacciono più di un buon film. Poi ci sono film strani che sono sconosciuti, il che non significa che non siano di qualità. Ad esempio a me piacciono sia Chaplin che Hitchcock, anche se sono molto diversi. Le persone spesso sono così ferme nei propri gusti, come accade per la musica. Per questo mi piacciono i film che non appartengono a un genere o a una categoria precisa.

Nel suo libro cita moltissimi film, molti dei quali per me sconosciuti. Da fan e cinefilo di b-movie, quali sono i titoli  assolutamente imperdibili?
I film che secondo me le persone dovrebbero vedere sono: se non si conosce Argento direi Suspiria; poi La frusta e il corpo di Mario Bava. Questi sono registi conosciuti. Poi c’è Mattei con Rats – Notte di terrore, ma va visto insieme agli amici e a una birra; I nuovi barbari di Enzo G. Castellari; Tromeo and Juliet di Lloyd Kaufman (fondatore della Troma); Splatters – Gli schizza cervelli di Peter Jackson; Demoni di Lamberto Bava. Passiamo ai film asiatici sconosciuti: The Miracle Fighters di Yuen Woo-ping, The Sword of Many Lovers di Poon Man-kit. E infine un film franco-belga piuttosto recente che è un omaggio al giallo, Lacrime di sangue di Hélène Cattet e Bruno Forzani.

Il personaggio che ho preferito del suo libro è Jean-Pierre Mocky. L’ho trovato bizzarro, ma anche molto ostinato nel suo lavoro. Lo conosceva già da prima di iniziare a lavorare al Brady e cosa ci può dire di lui?
Lo conoscevo da prima. Quando ho lavorato al Brady ho visto circa 15 film di Mocky. E ancora oggi continua a fare quasi due film all’anno e ha 85 anni; è completamente folle! All’inizio pensavo cheFRANCE-CINEMA-MOCKY la sua personalità fosse più interessante dei suoi film. Dopo averne visti alcuni, ho cambiato idea. Le persone lo conoscono per il personaggio che si è creato negli anni – va spesso in televisione a rilasciare dichiarazioni assurde, non sai mai se siano vere o meno. Gli piace essere così. Avevo paura di non riuscire a pubblicare il libro, perché lui voleva che scrivessi cose legalmente proibite, che non si potevano raccontare. Comunque penso che abbia letto il libro prima che venisse pubblicato, anche se non ci metterei la mano sul fuoco. Quando abbiamo organizzato la presentazione, voleva che venisse proiettato il suo primo film, ma non abbiamo potuto perché nel frattempo aveva venduto delle vecchie copie 35mm dei suoi film; alla fine abbiamo proiettato il suo terzo lungometraggio.

A parte Mocky, è rimasto in contatto con qualcuno di cui racconta nel libro?
Sì sono rimasto in contatto con le persone che non sono proprio ai margini, come il cassiere Gérard e Laurent, il b-cinefilo. Django ho provato molte volte a cercarlo, ma nessuno sa dirmi dove si trova. Era molto anziano e malato. Pensavo che l’uscita del libro sarebbe stata un’occasione per rivederlo.

Domanda classica: quali sono i suoi progetti futuri?
Ho qualche progetto: un fumetto, un film basato sul libro, ma ancora nulla di certo.

Infatti ho letto che all’inizio aveva pensato di fare un documentario e non un libro…
Sì, all’inizio avevo scritto una sceneggiatura, ma non ne ero mai soddisfatto. Poi sarebbe stato difficile girare quello che ho scritto nel libro: borseggiatori, guardoni e anche gli africani che popolavano il quartiere – la loro reazione sarebbe potuta essere aggressiva. Ho provato a fare un film su Mocky, in realtà era un modo per fare un film sul Brady; ho un’ora di girato, ma poi ho lasciato perdere. Alla fine il modo migliore per raccontare questa storia è stato il libro.

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