Il camorrista, di Giuseppe Tornatore

Piuttosto che un epigono di Il padrino è un antesignano di Gomorra, erede e affine al poliziottesco e al cinema di impegno civile. Stasera, ore 23.15, Premium Energy

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Il camorrista del 1986, film d’esordio, almeno per il grande pubblico, di Giuseppe Tornatore, piuttosto che un epigono di Il padrino è un antesignano di Gomorra. Là il malaffare e la malavita organizzata assumono i tratti di un affare di famiglia, qui invece, diventa piuttosto un’organizzazione imprenditoriale con tanto di rapporti e alleanze, prefigurando, infine, quel sistema, ormai ben collaudato, che garantisce una specie di mutualità abnorme agli affiliati in difficoltà, assicurando quel welfare così difficile da ottenere altrove e che qui, in cambio di qualche omicidio e qualche altro favore del genere, si ottiene senza avanzare domanda.
Il film nasce sulle tracce del romanzo Il camorrista. Vita segreta di Raffaele Cutolo, di Giuseppe Marrazzo, noto giornalista Rai che si occupò per tutta la sua vita professionale del malaffare della camorra con inchieste dure e difficili e che videro al centro dell’interesse la figura ambigua e “professorale” di Raffaele Cutolo. Un personaggio che, indiscutibilmente, rappresentò per la camorra napoletana, un momento di rinnovamento e di ampliamento degli affari e che come il film racconta costruì proprio in carcere la sua nuova camorra organizzata che nel film si chiamerà nuova camorra riformata.
L’ascesa di O Professore e Vesuviano, immaginario paese dell’hinterland napoletano (Cutolo è nato ad Ottaviano) prende le mosse dal primo omicidio perpetrato da protagonista avvenuto per un pesante apprezzamento alla sorella. Vicenda questa, come molte altre che ricalcano la biografia di Cutolo con una invenzione dei nomi riprodotti onomatopeicamente nel suono, con una certa spregiudicata corrispondenza al vero. Il carcere diventa il brodo di coltura della scalata del Professore. Omicidi e intese, alleanze tradite e sfide, collusioni e tradimenti, tutta quella rete di vicende che serve ad affermare

la spietata consistenza del suo potere per un uomo di malavita che non deve mai ragionare con il cuore, ma con il cervello. La latitanza, dopo una fuga spettacolare dal Manicomio criminale dove era stato ricoverato per una connivente perizia psichiatrica che lo aveva decretato come non sano di mente, gli servirà ad affermare ancora di più il suo potere che si allarga fino ad abbracciare rapporti con i politici, le nascenti Brigate Rosse. Con il rapimento dell’assessore Mesillo (Cirillo nella realtà della cronaca), rafforzerà il suo potere e la sua credibilità negli ambienti della peggiore politica e così fino al suo declino, quando rinchiuso in un carcere di massima sicurezza su di un’isola, avrebbe fantasticato dell’arrivo dei suoi dal mare e dal cielo per liberarlo.
Il camorrista affonda inevitabilmente le mani e il racconto in quella cronaca di quegli anni ’80 e di quelli immediatamente precedenti, compreso il terremoto dell’Irpinia (del 1980) durante il quale imponenti furono gli affari della camorra sulla ricostruzione. Il film quindi nel farsi sintesi, anche fedele di una cronaca che ancora appartiene alla memoria collettiva, si fa anche compendio di un cinema anch’esso all’epoca sufficientemente recente, che aveva preso diretta ispirazione da quella cronaca sempre ricca di episodi malavitosi che incrinavano, per la prima volta così massicciamente in Italia, la convivenza civile nelle grandi e nascenti metropoli industriali del nord Italia soprattutto. La Milano e la Torino degli anni ’60 e ’70, in modo particolare, erano diventate l’esplicito scenario quasi esclusivo del cosiddetto cinema poliziettesco italiano, quello stesso che avrebbe messo in scena la paura della e nella metropoli, contribuendo, se si vuole involontariamente, a disegnare un clima di inquietudine che per la prima volta sembrava regnare nei quartieri delle città.
Oggi che la carriera di Tornatore è molto più delineata, dopo i tanti premi ottenuti, l’Oscar, ma anche le cadute e le successive conferme, con una sua idea di cinema fatta di molte componenti, ma non certo quella di una cronachistica impellente, Il camorrista resta un film sufficientemente anomalo, controcorrente e quindi unico nella sua filmografia. Un film che entra in diretta in quei fatti che attestarono di quando la politica si fece per la prima volta affascinare dalla criminalità, con una narrazione serrata, un cast di attori azzeccato, compreso l’italo americano Ben Gazzara quale protagonista e una ottima schiera di attori non protagonisti tra i quali Leo Gullotta che per la sua interpretazione da non protagonista del poliziotto integro e tenace di Jervolino conquistò il David di Donatello. Il camorrista, dicevamo, diventa sintesi e compendio di una filmografia di quel passato durante il quale il cinema costituiva una naturale occupazione del tempo libero e quando ancora nelle sale, la domenica soprattutto, campeggiava la scritta luminosa “solo posti in piedi”. A significare del ruolo masamediatico che il cinema aveva e che oggi ha inevitabilmente perduto, diventando, invece, altro, immaginario elitario e non più collettivo. Tornatore spinge su questa natura popolare e lo fa con una certa efficacia, con una sua naturale propensione, con una serrata narrazione che non fa pesare le quasi tre ore di durata. D’altra parte il film, fu pensato anche per la televisione, nella sua versione, più lunga di cinque ore, ma mai trasmesso – salvo smentite – sulle reti televisive.
Si scorgono, in questa costruzione, che attinge da quel recente passato cinematografico, quei lampi di un futuro ancora lontano, ma che sembravano già adombrarsi nella struttura narrativa del film. Certe sintesi visive che condensano i preparativi di un agguato, una messa in scena spettacolare delle sparatorie e non da cronaca da reportage e, al fondo, una visione tutta “imprenditoriale” del malaffare, restituiscono a questo film un profilo quasi neandarthaliano rispetto all’odierna estetica gomorriana. Quella estetica divenuta marchio di fabbrica di una calligrafia televisiva che da qui si è riversata al cinema, anche a significare una avvenuta confusione tra i due mezzi, una avvenuta saldatura tra i due linguaggi un tempo così autonomi e distanti. Il camorrista, nel suo incedere come film anche di denuncia, si fa erede di quell’altro filone cinematografico, affine e opposto a quello poliziottesco, di impegno civile. Ne riassume certi echi, ma senza mai finire di volerlo diventare e se caso mai lo dovesse diventare è solo nella demoniaca o predemoniaca costruzione del personaggio protagonista, in quel fiuto per l’allargamento degli interessi camorristici che dalla politica all’oltreoceano diventano uno spettro amplissimo nel quale misurare il grado di civiltà e di resistenza di una nazione democratica. È per questa ragione che il film di Tornatore sembra attingere anche a Francesco Rosi e suoi successori, ma se ne discosta interessato piuttosto a costruire non tanto un’epica – il suo Professore, non ha il carisma di un Padrino – quanto piuttosto una perfida icona che diventa popolare nella semplificazione della sua parola che si fa “intellettuale” e nella sete di un (contro) potere che diventa il fine ultimo di ogni sua iniziativa, dove perfino il denaro non diventa obiettivo, ma solo strumento. Non dimentichiamo a questo proposito che il regista napoletano nel 1981, per Rai Tre Campania aveva girato il documentario Incontro con Francesco Rosi
Una notazione è quasi d’obbligo, ci si domanda, come mai un regista siciliano, palermitano in particolare, abbia avuto bisogno di rivolgersi alla camorra per raccontare una storia così forte e legata agli ambienti malavitosi. Forse il romanzo dal quale trae ispirazione o forse il l’impatto mediatico che il vero protagonista delle vicende ebbe in quegli anni, sparigliando le carte della politica e attirando su di se gli sguardi di chi studiava l’antipolitica, tanto più vero questo che perfino Fabrizio De Andrè prese le vicende di Cutolo quale cartina di tornasole di uno Stato che rischiava di gettare la spugna davanti all’incontrollato strapotere camorristico e malavitoso in genere.

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Regia: Giuseppe Tornatore
Interpreti: Ben Gazzara, Laura Del Sol, Leo Gullotta, Luciano Bartoli, Lino Troisi, Marzio Honorato, Nicola Di Pinto, Anna Zagaria, Biagio Pelligra, Franco Interlenghi
Origine: Italia, 1986
Durata: 168′
Genere: drammatico

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