Il caso del ridimensionamento di Google Stadia

Dopo un solo anno dal lancio, un annuncio comunica la chiusura definitiva degli studi di sviluppo per la creazione di contenuti esclusivi: resterà una piattaforma ospite di giochi di studi esterni

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Il 19 marzo 2019 Sundar Pichai, il CEO di Google, è salito sul palco della Game Developers Conference di San Francisco per annunciare una nuova frontiera del mercato videoludico: Google Stadia è una piattaforma di cloud gaming che permette di giocare in streaming (anche in Hdr e 4K) da qualsiasi dispositivo – che rientri nei parametri da rispettare per il corretto funzionamento del servizio e che sia dotato di buona connessione a internet (almeno 10 Mbps) – eliminando l’obbligo di possedere una console o un computer troppo costoso. Ne parlammo anche sul terzo numero del nostro SentieriSelvaggi21st. E in effetti così è stato, Stadia viene lanciato a novembre dello stesso anno con un abbonamento a 9,90 euro al mese, per un catalogo che all’inizio includeva videogiochi di terze parti come Assassin’s Creed Odyssey e Destiny II, fino all’inserimento di altri titoli più recenti tra cui Cyberpunk 2077, Jedi Fallen Order, Assassin’s Creed Valhalla e così via.
Fin qui tutto ok, una notizia sbalorditiva, per alcuni un anticipo dell’unico futuro possibile per il gaming: sembrava che Google volesse irrompere prepotentemente nel mondo dei videogame con un’idea davvero rivoluzionaria, tanto che i colossi del mercato in questione (come Microsoft e Sony) cominciavano a temere di poter essere surclassati.
In più c’era un’altra circostanza che rendeva Stadia ancora più temibile agli occhi delle altre major: Google avrebbe iniziato a produrre videogame esclusivi per il suo servizio. Dunque non si trattava solamente di distribuire titoli tramite la piattaforma, ma anche di crearli.
Tant’è che nel 2019 Google ha aperto Stadia Games & Entertainment, due studi di sviluppo di videogame, uno a Los Angeles, l’altro a Mont Real, assumendo circa 150 dipendenti.

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È qui che cominciarono a sorgere i problemi: in primis Google è ed è sempre stata un’azienda specializzata in tecnologia informatica, non una società adibita alla creazione di contenuti narrativi, visivi o videoludici. In secundis, dopo aver versato decine di milioni di dollari nella costruzione di SG&E, a quanto pare (per Google) sarebbe stato un vero problema sopportare i costi e la complessità dei processi creativi necessari per la realizzazione di videogame nextgen o comunque in grado di competere col mercato.
Dunque, questi fantomatici videogiochi esclusivi Google non sono mai usciti perché Google non li ha mai davvero realizzati – tenendo conto anche del flop al lancio del servizio che contava un numero decisamente basso di iscrizioni all’abbonamento.
Dopo solamente un anno dal lancio, il primo febbraio 2021 Phil Harrison, vice presidente e GM Google Stadia ha pubblicato un annuncio in cui comunica la chiusura definitiva di entrambi gli studi di sviluppo e di conseguenza il licenziamento di tutti i dipendenti assunti l’anno precedente.
Le motivazioni non sono del tutto chiare, ma resta l’ipotesi che l’errore principale di Google sia stato quello di adottare un modus operandi troppo avventato, diverso da quello delle altre major che invece mostrano una oculatezza più attenta.
Microsoft ad esempio non ha realizzato dei videogame partendo da zero, bensì attraverso l’acquisizione di altri studi di sviluppo tra cui Mojang (Minecraft) e Bethesda (Fallout, The Elder Scrolls).
In fin dei conti Google ha scelto di lasciare comunque attivo il servizio di Stadia e la possibilità di abbonarcisi, ridimensionando l’obiettivo principale che ora è quello di ottimizzare e favorire lo sviluppo della piattaforma investendo sulla creazione di nuove partnership con sviluppatori e publisher i quali forniranno i contenuti.
La domanda è: resterà la fiducia nei confronti di una multinazionale che ha venduto un servizio con la promessa di fornire ai clienti contenuti esclusivi, senza mantenerla?

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