Il cinema di David Fincher- La regia come messa in scena del caos organizzato

Sempre alla ricerca di uno stile autoriale che ben si dissimuli all’interno della storia narrata, l’ultima opera di Fincher conferma la superiorità della produzione americana su quella europea, e segna un nuovo capitolo nel cinema inteso come opera-mondo, un cinema che si esprime in quanto meccanismo tellurico di disvelamento della realtà.

 

The Girl with the Dragin Tattoo

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Nel confronto tra cinema americano ed europeo, stavolta ad avere la meglio è il cinema americano. La Warner ha voluto sostanzialmente dimostrare che il sistema produttivo statunitense possiede un cast tecnico di livello qualitativo superiore a quello di una produzione europea, nel caso della trilogia di “Millennium”, parliamo di quella svedese.

 

Il punto è chiaro: prendere una buona (giudicata buona dagli americani, s’intende) stor

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Daniel Craig in The Girl With the Dragon Tattooia, com’è quella dell’indagine sulla scomparsa della nipote di un ricco industriale, effettuata da un giornalista che si deve rifare un’immagine dopo uno scoop andato male, e una hacker punk.

 

 

 

 

Il primo film della trilogia di Stieg Larsson era stato trasposto nel 2009 nel film svedese di Neils Oplev, con Noomi Rapace. Risultato: trascurabile. Niente più che un buon thriller da Rete 4, una regia mediocre e scontata, autorialità del progetto pari a zero. Film americano: regia affidata a David Fincher, la fotografia ad un “monstrum” della luce come Jeff Cronenweth (già responsabile della architetture visive di Fight Club), Daniel Craig, attore dalla mascella forbita e torva e Rooney Mara che offre una performance quasi robotica, che sorprende per mimesi e intelligenza.

Dunque, la Warner mette il progetto del remake del film svedese di Neils Oplev in mano a David Fincher, specialista in storie torbide; che esordì al cinema con il terzo episodio di Alien e, dopo il secondo film, Se7en, (micidiale requisitoria morale sull’ambiguità dell’essere umano, lotta langhiana tra detective e omicida seriale, in cui alla fine si sRooney Mara in The Girl with the Dragon Tattoocopre che il detective stesso faceva parte del piano criminoso del folle omicida), molto amato da una parte della critica militante, e grandissimo successo di publbico (strano per un film così violento e nichilsta), licenzia una serie di film controcorrente e alcuni mezzi passi falsi: The Game, (metacinema troppo in avanti sui tempi?) viene maltrattato o preso sotto gamba dalla maggior parte della critica, delusa di non aver visto un seguito del film con Brad Pitt e Morgan Freeman (c’è poi da dire che la struttura di Se7en verrà ricopiata da Hollywood svariate volte, senza mai raggiungere i livelli del prototipo). Fincher così inizia a sparigliare le carte, si perde in produzioni altalenanti come Fight Club (geniale e semplicistico) e Panic Room (film che venne alla luce quasi per miracolo, essendo il frutto di compromessi tecnici, e non rispecchiando le volontà del suo autore di girare un film molto più radicale).

 

Poi per Fincher passano 5 anni, in cui Tom Cruise gli chiede persino di venire al timone della suo Mission: Impossible III. Per fortuna non se ne farà niente, e il film verrà girato da J.J. Abrams. La svolta alla carriera di Fincher arriva quando il suo agente gli fa leggere lo script di Zodiac di James Vanderbilt. E’ così che nasce quello che si può definire il suo miglior film dai tempi di Se7en. Una regia classica, pulita, un film tutto parole e non detto. Un’operazione sotto tono e geniale. Dove il regista-autore si mette da parte per dar respiro alla storia e far parlare l’immagine.

 

Questo meccanismo di sparizione autoriale (che non fa altro che evidenziare ulteriormente la caratura autorialista di Fincher) lo si può applicare anche ai tre successivi film, The curious caso f Benjamin Button, The Social Network e quest’ultimo Millennium – The Girl With the Dragon Tattoo. Le differenze tra i tre progetti sono profonde, Benjamin Button è scritto da Eric Roth e la melassa non tarda a manifestarsi come elemento retorico hollywoodiano persistente (in Benjamin Button il regista asseconda quasi alla lettera lo script di Eric Roth, non aggiungendo nulla del suo stile cupo e adrenalinico), The Social Network poggia su basi solidissime e determina quello scarto interpretativo che denota l’urgenza del cinema di Fincher come organo pulsante, vivo, analitico, come una belva mai doma e sempre pronta a sorprendere, grazie anche ad un cast semplicemente divino.

 

Ma veniamo a quest’ultima operazione. Fincher prende la storia di Stieg Larsson come un semplice canovaccio e s’inventa letteralmente la regia, disvelando un universo visivo costruito sulla secchezza e la schiettezza dei caratteri e delle forme di rappresentazione violenta di vita e morte. Il Millennium di Fincher offre una visione molto pesante e aulica, calibrata e aperta alla vita, sporca e dolente, umida di detriti morali, imbastendo una discussione sul senso della visione, rimarcando il motivo di una visione scheggiata e mai chiara. Alla fine si scopre il colpevole, ma non ci sarà vera resa dei conti, dopo l’inseguimento tra Rooney Mara e Stellan Skarsgard il film prende un’impronta più universale facendosi opera-mondo, con gli ultimi 20 minuti che segnano la trasformazione tellurica di Rooney Mara in imprenditrice che si adopera in un investimento che risolleverà le sorti economiche del suo collega amante, che poi gli volterà le spalle, tornando con la moglie Robin Wright.

 

Millennium finisce così, senza una vera chiusura, mantenendo quel distacco emotivo che è la cifra principale del film. Millennium sembra un’opera su commissione (in effetti, lo è a tutti gli effetti) ma dove si vede oggi ad Hollywood un cineasta che riesce a mettere la sua firma autoriale in un progetto non suo?

Millennium si stampa nella memoria come un  thiller freddo, tagliato da luci livide che ammantano l’immagine di una patina di fosforo duro, un’intelaiatura emotiva a prova di guardo, è per questo che il suo cinema è così potentemente necessario e quasi invisibile riuscendo a sorprendere senza emozionare. Fincher, come pochi altri ad Hollywood, ha il dono della regia come messa in scena del caos organizzato.

 


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