"Il colore del crimine", di Joe Roth

Il film parte con intenti claustrofobici e ansiogeni, macchina da presa che sobbalza intorno alle facce e non lascia respiro, al ritmo dei battiti accelerati di una donna a cui hanno appena rapito il figlio. Tutto il resto sembra l'anti-decalogo del thriller.

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L'unica forma di contatto che questo film stabilisce con lo spettatore è un'empatia che non vorremmo mai provare al cinema. Quando vediamo Samuel L. Jackson ingabbiato in monologhi penosi che sembrano la sagra del luogo comune su Dio, la vita e il destino. Quando vediamo l'attore di Pulp Fiction e Unbreakable costretto nei panni improbabili e angusti di un personaggio che deve rappresentare per forza e tutto in una volta le contraddizioni e le frustrazioni della condizione black in terra nordamericana. Il tutto quando il massimo dello spessore psicologico è una bomboletta per l'asma che salta fuori nei momenti di panico…
Sarà stato il doppiaggio? Sarà che il film tira via troppo di fretta sia il romanzo ("Freedomland" di Richard Price) che la vicenda reale? Sarà che Julianne Moore poteva spalancare i baratri dell'amore/odio materno e invece cerca solo di sembrare una drogata per tutto il tempo del film? Il colore del crimine parte con intenti claustrofobici e ansiogeni, macchina da presa che sobbalza intorno alle facce e non lascia respiro, al ritmo dei battiti accelerati di una donna a cui, pare, hanno appena rapito il figlio di quattro anni e di un detective che si prende immediatamente a cuore il suo caso. I primi piani dell'interrogatorio, la fotografia livida, sporca, buia, l'inquadratura che non lascia aria intorno ai corpi rendono quasi intrigante la prima mezz'ora. Tutto il resto sembra l'anti-decalogo del thriller: il protagonista è convinto che la madre stia mentendo, ma nessuno capisce perché visto che lei non parla, non si contraddice, non inciampa e non ci sono indizi; la tensione è sotto la soglia minima; paradossalmente, nonostante la storia sia realistica, tutto sembra irreale perché troppo caricato, finto – come il modo in cui viene raccontato il conflitto di razze nella provincia americana, che esiste lacerante e incredibile ma non è certo fatto di macchiette – quando non totalmente privo di motivazione (la rivolta finale di quartiere: perché?). E' un peccato, perché l'idea di fondo – la follia che guida verso una macchinazione che punta a incolpare una comunità "in grado di sopportarlo", cioè quella nera – era potenzialmente esplosiva. Ma i pochi punti di forza, visibili all'inizio, cedono il passo nei tre quarti restanti del film a campi lunghi su brefotrofi abbandonati che potrebbero lacerare e non danno nessuna emozione, al solito spazio alla mania associazionistica americana, ai soliti particolari obsoleti, a battute che nascono drammatiche e muoiono comiche. Le etichette – razzismo, bambini rapiti, due nomi importanti per protagonisti – possono bastare per un biglietto. Joe Roth ha scelto di non scavare nel vero orrore.

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Titolo originale: Freedomland
Regia: Joe Roth
Interpreti: Samuel L. Jackson, Julianne Moore, Edie Falco, Ron Eldard, William Forsythe, Aunjanue Ellis, Anthony Mackie
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Durata: 113'
Origine: USA, 2006

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