Il conte di Montecristo, la serie – Intervista a Bille August
In occasione dell’arrivo su Rai 1 della nuova serie de “Il conte di Montecristo” abbiamo incontrato il suo regista, Bille August, che ci ha raccontato il suo approccio ai grandi temi del romanzo

Due volte vincitore della Palma d’oro a Cannes, nel 1988 con Pelle alla conquista del mondo (che vinse anche l’Oscar al miglior film straniero) e nel 1992 col film Con le migliori intenzioni, tratto da una sceneggiatura autobiografica di Ingmar Bergman, il danese Bille August è un veterano di trasposizioni letterarie di internazionale, ultima delle quali la serie Il conte di Montecristo, co-produzione italo-francese in otto episodi scritta dal nostro Sandro Petraglia, interpretata da Sam Claflin e Jeremy Irons e in onda dal 13 gennaio quattro lunedì su Rai. Abbiamo incontrato il regista.
Da dove è partito per lavorare su un classico di questa portata?
Quando ho accettato di realizzare Il conte di Montecristo sapevo che sarebbe stata una serie televisiva di otto episodi. Avevo letto il romanzo molti anni fa ma ovviamente l’ho riletto e mi sono reso conto che in effetti sì, questa storia così ricca e profonda necessitava di otto ore per essere raccontata. Se avessi dovuto fare solamente un film probabilmente non ci sarei riuscito proprio a causa della potenza e della complessità di questa storia. Prima di tutto ciò che mi interessava era il tema della vendetta perché alla fine il protagonista non è felice quando soddisfa il suo proposito ma anzi è un uomo spezzato, che non sarà in grado di amare mai più. E penso che ci sia un messaggio importante qui: la vendetta non aiuta niente e nessuno, non è una soluzione. Ciò che abbiamo fatto mentre adattavamo il romanzo è stato eliminare gli elementi che non avevano a che fare con questo tema principale e che non avevano niente a che fare con le premesse della storia, quindi tutto ciò che c’è nella serie è connesso con ciò che volevamo raccontare.
In passato ha affrontato anche I miserabili di Victor Hugo, altro testo in cui un uomo lotta contro il destino. Qual è il suo rapporto con la letteratura francese del 19° secolo e quel tipo di personaggio?
Ciò che mi piace di quella letteratura, che non è solo francese perché ci metto anche Dickens e Tolstoj, è la sua profonda umanità. Ti ricorda sempre che gli esseri umani sono esseri umani e che al di là di ciò che succede, di tutte le ingiustizie che si infliggono e si subiscono, alla fine della giornata siamo solo esseri umani. E penso sia questa la qualità di Alexandre Dumas e di Victor Hugo, ma in generale di tutta una generazione di autori di quel tempo.
Qual’è la differenza più grande nell’approcciare una serie televisiva rispetto ad un film?
Il grande vantaggio di una serie, in particolare se hai una storia come questa, è il tempo. Hai otto ore invece di due e questo ti permette un diverso grado di approfondimento della psicologia dei personaggi e delle relazioni fra di loro. Devi sempre lavorare sul dramma e devi coinvolgere il pubblico, ma è solo una diversa maniera di raccontare una storia.
Fra le diverse location della serie, dalla Francia a Malta, vi siete fermati anche a Torino. Perché l’avete scelta e cosa pensa della città?
Ero stato a Torino molti anni fa, credo poco dopo la nascita della Film Commission, per un progetto che purtroppo non si è mai realizzato, e me la ricordavo ancora molto bene. Mentre discutevamo sul dove avremmo potuto girare Il conte di Montecristo ho immediatamente suggerito Torino per molti motivi, primo fra tutti i luoghi che una ex capitale ancora conserva intatti come il palazzo del parlamento e le stanze del potere in cui Edmond consuma la sua vendetta contro uomini dell’alta società che gli avevano rovinato la vita. Inoltre, Torino è una città molto amichevole con le produzioni cinematografiche e la squadra con cui abbiamo lavorato sapeva davvero il fatto suo. Infine ho scoperto delle bellissime ville d’epoca poco fuori dalla città. Mi hanno sorpreso. È stata davvero una magnifica esperienza girare in questo territorio. Ho un nuovo progetto di cui non posso parlare ma che mi piacerebbe realizzare a Torino perché credo che sarebbe perfetta.
Una curiosità… In passato ha avuto l’occasione di conoscere Ingmar Bergman e di mettere in scena una sua sceneggiatura. Che ricordo ha di quella esperienza e chi era per lei il maestro svedese?
A quel tempo per me Ingmar Bergman era uno dei più grandi registi del mondo, l’ammiravo, ma non lo conoscevo personalmente. Un giorno suonò il telefono ed era lui, proprio Ingmar Bergman, che mi chiedeva se fossi interessato a collaborare per una storia che aveva scritto sui suoi genitori e sul loro felice matrimonio. Ovviamente ero entusiasta alla sola idea e quando mi mandò il copione mi resi conto che era il migliore che avessi mai letto in tutta la mia vita. C’era solamente un problema: all’epoca avevo già fatto un paio di film e non volevo fare l’assistente all’ombra di un grande maestro. Così ci incontrammo e glielo dissi, al ché lui rispose che capiva l’integrità di un professionista e che in quel caso si sarebbe limitato al lavoro di sceneggiatore. Da quel momento fu chiara la situazione e trascorremmo insieme due mesi sull’isola in cui abitava, parlando della storia ma anche della vita. Per molto tempo dopo le riprese del film restammo amici e ogni notte mi chiamava alle due in punto, non un momento prima non un minuto più tardi. Mi manca moltissimo, era un uomo adorabile, non solo un grande regista. A volte ci troviamo di fronte a problemi che sembrano insormontabili e Ingmar era qualcuno a cui potevo sempre chiedere consiglio.