Il corpo-cinema di Donnie Yen in John Wick 4

In John Wick 4 il senso della star hongkonghese sta tutto nella sua fisicità analogica, che opposta alle derive videoludiche dei blockbuster odierni, fa esistere nuovamente i linguaggi del cinema

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Coloro che si attaccano alla morte, vivono. Coloro che si attaccano alla vita, muoiono”. Il senso di John Wick 4, di ciò che il film mette in scena, lo potremmo individuare in queste parole. Non tanto per l’enfasi con cui le recita Keanu Reeves o per la centralità che assumono nell’epilogo della saga, ma per come illuminano i mondi in cui operano rispettivamente i due personaggi/attori di riferimento. Ciò a cui è riferita la prima parte della battuta è palese: Wick si rivolge all’amico/rivale Caine (Donnie Yen), ma il referente non può che essere lui stesso. Per chi gli sta di fronte, al massimo vale la seconda frase. E il motivo è da individuare nei modi in cui Stahelski re-interpreta i corpi di queste due icone. Capaci di condividere la stessa origine iconografica, ma destinate allo scontro proprio perché relegate in una cornice di segno opposto.

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Se John è un corpo che subisce, quello di Caine è un corpo che (r)esiste. Per quanto Keanu Reeves, specchio di Neo, sia una star-analogica alla pari del suo collega hongkonghese, nel film è calato in una dimensione talmente asfittica e atemporale, da fargli perdere la connessione con il reale. Wick è in tutto e per tutto un eroe (dis)connesso, con la sola morte ad illuminare un’esistenza fatta di sole scelte binarie: uccidere, o essere ucciso. Nulla per lui ha veramente senso: non ha una famiglia da cui tornare, né veri amici che lo ridestino dall’anestesia del gesto omicida. E per questo lo vediamo cadere in continuazione senza mai riportare delle ferite, perché il mondo in cui vive – o meglio, in cui è catapultato – è falso. È un insieme di “zero” e di “uno” dove è depotenziata qualsiasi referenzialità del suo essere-analogico. Cosa che non accade, invece, per Donnie Yen. Icona deliberatamente anti-videografica, che riporterà John (e il film) verso i binari del cinema.

Qualcuno, adesso, potrebbe replicare: perché resiste solo Donnie? Non appartengono entrambi allo stesso spazio – e quindi subiscono gli stessi effetti anestetizzanti di un’epoca che ha superato l’alta fedeltà della pellicola? Vero. Ma a differire è il modo in cui si approcciano a quella realtà. Per quanto i due attori, infatti, siano riuniti sullo stesso piano, i mondi in cui agiscono sono assolutamente diversi. I motivi sono tanti, e potremmo partire dalla caratteristica più appariscente del personaggio di Caine: la cecità. Se Reeves non può sottrarsi alla narcotizzazione sensoriale, perché è immerso fino al collo nelle sue spire digitali, Donnie Yen, al contrario, non ne diventa testimone. Il buio in cui vive non è quello di una Parigi-torrent dove i nemici assumono le sembianze di bot mascherati, ma quello – più poetico – della sala. Stahelski ne è consapevole, e lega l’indipendenza del personaggio alla storia cinematografica dell’attore. Una traiettoria che alla pari della settima arte, ha nel connubio di tradizione e modernità la sua cifra caratterizzante.

Oltre ad essere un corpo già di per sé analogico come tutte le grandi icone di Hong Kong, Donnie Yen è ad oggi l’esponente massimo della tradizione artigianale (e materica) del cinema action. Tanto che il film ragiona quasi ossessivamente sulla sua identità divistica. Basti pensare al modo in cui John Wick 4 anticipa la sua entrata in azione, con l’attore che mangia imperturbabile un piatto di noodles, mentre nel Continental infuria la battaglia. Un immagine che, guarda caso, riporta alla mente la sequenza introduttiva di Ip Man, in cui il grande maestro di arti marziali, padre della tradizione del wing chun, invitava a tavola il suo avversario, prima di testarne le abilità nel combattimento. Tutto questo, naturalmente, si potrebbe interpretare come un mero omaggio. Ma il film supera sin da subito lo scoglio citazionistico, per proiettare l’artigianalità dell’attore nel mondo iperrealistico – e quindi non-referenziale – di John Wick. Ecco allora che Donnie Yen (r)esiste in quanto icona vulnerabile. Il suo corpo è umano, fragile, e di conseguenza può essere ferito. A differenza di John, lui non può permettersi di cadere da un palazzo e rialzarsi senza strascichi o struggimenti. Sin dai tempi di Mismatched Couples (1985) – film in cui si è lesionato definitivamente i tendini delle spalle – ha subìto fin troppi infortuni, al punto che il personaggio di Caine, con la sua vulnerabilità, si fa qui sineddoche di una espressività credibile perché vera. Così reale da cambiare le coordinate dello spazio circostante, e portare John/Keanu nuovamente verso i lidi dell’analogico.

Quel che vediamo nel duello non è dunque la (possibile) sconfitta del protagonista, ma la sua ri-connessione con il mondo. Finché Wick è immerso nella sua solitudine virtuale, non ha in testa che un pensiero: uccidere, uccidere, e ancora uccidere. Non c’è via di fuga. Ma è nel momento in cui si confronta con il corpo di Donnie Yen, che la sua figura cambia di segno. Perché quella che ha davanti è più di una corporeità “tradizionale”: è l’incarnazione del cinema. Se il dispositivo cinematografico è sia novecentesco che contemporaneo, un mix costante di classicismo ed evoluzione tecnologica, la stessa binomia semantica la troviamo nell’attore sino-hongkonghese. Non solo, ad esempio, di Wong Fei-hung – cioè il più tradizionale degli eroi del cinema cinese – è stato avversario (Once Upon A Time in China II) e padre (Iron Monkey) – e quindi metafora – ma nel corso degli anni ha portato nell’industria nazionale (e per osmosi, in quella hollywoodiana) un nuovo modo di girare, interpretare e raccontare l’arte del combattimento scenico. Proiettandola verso il futuro.

Le sua vaste conoscenze in materia di arti marziali gli consentono così di mixare contemporaneamente più stili, sia passati che moderni, e implementarli in un’unica espressione artistica. Nei suoi calci, prese e pugni c’è il passato, presente e futuro del cinema action. Tanto che, non appena entra in azione nei panni di Caine, lo vediamo alternare i colpi di pistola alle sciabolate dello shaolin, passando senza soluzioni di continuità dal classicismo all’avvenirismo. Ed è questa sua essenza analogica, questa capacità del suo corpo/materia di respingere l’anestesia del video, a renderlo un “faro di resistenza” alle derive del digitale. Solo così può riportare John Wick (personaggio e film) verso gli albori novecenteschi: lontano dagli orizzonti videoludici di tanti blockbuster odierni, contro cui la fisicità di Donnie Yen (r)esiste, per far esistere nuovamente il linguaggio del cinema. Al di là delle contaminazioni di cui può essere oggetto.

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