"Il corpo, il cinema, la Storia: incontro con Martin Scorsese

"Gangs of New York" è un sublime non finito, un work in progress dalle proporzioni folli. Forse il film definitivo sul possibile senso della postclassicità. Ce ne parla Martin Scorsese, giunto a Roma per presentare la sua opera insieme ai due interpreti, Daniel-Day Lewis e Leonardo Di Caprio

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Nella Promoteca del Campidoglio si fa fatica ad entrare. La ressa di corpi (giornalisti/ fotografi/ guardie del corpo/addetti alla sicurezza) in assetto di guerra è di quelle che non si dimenticano. E' un corpo a corpo furioso, il tentativo di imporsi sullo sguardo dell'altro, cercando di accedere ad un punto di vista (come se si volesse privilegiare/ proteggere /ghermire il proprio occhio, esaltandolo nella baruffa dello Spettacolo che sta per cominciare) per certi versi privilegiato. Non è un film, è lo sbobinamento dialettico/parlato di Gangs of New York compiuto da uno Scorsese meno logorroico del solito, coadiuvato dai suoi interpreti, Daniel Day Lewis e Leonardo Di Caprio. I fotografi fanno il loro lavoro, iniziando a tempestare la sala di flash impazziti che riconfigurano nervosamente il biancore asfittico delle pareti. Scorsese entra accompagnato dal sindaco Veltroni, segue Di Caprio, ma i nostri occhi restano incollati sul magnetismo folgorante di Daniel Day Lewis, reduce da un'altra interpretazione da Oscar. Ma parliamo di cinema. Di Gangs of New York appunto. Sembra strano racchiudere l'opera in un orizzonte di senso abbastanza definibile, visto che ci si impone subito alla vista come un sublime  non finito, work in progress come vent'anni fa era stato Apocalipse Now. Non si tratta più per Scorsese di fare cinema, ma di dare respiro, corpo, fiato, ad un progetto che vale una vita. Un po' come per il Leone di C'era una volta in America. Il cinema c'è, è di quelli che lasciano il segno, ma stavolta si va addirittura oltre la traiettoria oscillante della visione. E' questione di nascite, di resurrezione della carne. Con Gangs of New York lo zombie del cinema rinasce a nuova vita, riallacciandosi all'archeologia impazzita di Griffith, De Mille, Stroheim. Vediamo cosa ha da dirci a proposito Martin Scorsese.


 


Che ci dice dell'esperienza di lavoro a Cinecittà, la vera e propria officina in cui ha preso vita il suo film?


Sono rimasto letteralmente folgorato dalla vostra Cinecittà. La amavo molto prima ancora di lavorarci, visto che si tratta di un vero e proprio tempio di cinema, in cui sono nate quelle opere che amo di più (basti pensare a Fellini e così via dicendo), e in cui si respira ancora un'aria di grandissima professionalità che ho peraltro riscontrato sin dall'inizio dei lavori. Nei momenti iniziali sul set, ero consapevole di trovarmi di fronte ad un film che desideravo fare da più di trent'anni. Il romanzo di Asbury che sta alla base dell'opera mi ha tormentato per tanto tempo, ma ho sempre rimandato questo appuntamento per tanti motivi che non sto qui ad elencare. Si trattava chiaramente di dare forma ad un certo tempo storico, all'interno di uno stesso spazio ambientale, senza però cadere nelle trappole che di solito puntellano operazioni come questa. Ricreare la New York degli albori in studio mi ha subito elettrizzato e proprio grazie all'esperienza del nostro grandissimo Danilo Ferretti e alla bravura dei suoi aiutanti, sono stato subito messo nelle condizioni migliori per concretizzare un sogno che, in questo caso, vale davvero una vita. E' anche per questo motivo che ho volutamente racchiuso in questa mia opera tanti richiami a un po' tutto il mio cinema, con una serie di scontri tra bande rivali che sono sì fatti storici, ma al tempo stesso una sorta di rivisitazione di tutti quei movimenti dialettici e assolutamente fisici che caratterizzano tutto il mio cinema, da Mean streets in poi.



 


In che modo si è posto nei confronti della rievocazione storica degli anni in cui è ambientato il film?


Naturalmente, prima di iniziare le riprese, ho dovuto affrontare il problema della documentazione storica, servendomi del mio amico Jay Cocks che è uno dei migliori sceneggiatori che conosco, e consultandomi direttamente, sia a livello figurativo che a livello per così dire narrativo, su quelle che furono le tappe più importanti che condussero alla nascita dell'America, partendo dalla Rivoluzione americana fino ad arrivare alla Guerra Civile. Si tratta di episodi che hanno fatto la storia del nostro Paese, ma che sono del tutto dimenticati dai manuali che si studiano nelle scuole. Sotto questo aspetto dunque, ciò che accade (e che filmo) a Five Points è una delle tante oscillazioni telluriche che portarono alla raggiungimento di una democrazia fondata per l'appunto sulla convivenza di culture tanto diverse fra loro. Non è stato facile e immediato raggiungere subito la giusta definizione scenografica del periodo, ma diciamo che ne avevo sin dall'inizio un'idea molto chiara e per certi versi definita. E' quello che peraltro accade con i film che desidero più fare: anche quando le riprese sul set sono ancora lontane, già ho un'idea chiara di cosa racconterò e soprattutto di come lo racconterò. Si tratta di accensioni formali che presiedono ad ogni processo creativo. Almeno nel mio caso, le cose vanno così.


In un opera che comunque rilancia prepotentemente una fisicità cruda, ai limiti del tollerabile…


Non voglio entrare nel merito dei problemi che il mio film ha avuto con la censura in America, e che probabilmente avrà anche da voi in Italia. Sin dall'inizio io e i miei collaboratori eravamo certi che il film che andavamo a fare non sarebbe stato certo un prodotto adatto a tutti, e difatti così è. Il mio film non si rivolge ad un pubblico preciso, certo è molto violento, dunque è giusto porre dei divieti alla visione. Questo però è un problema se vogliamo anche molto superficiale. Quello che invece mi preme sottolineare è che quando certi critici accusano quest'opera di essere troppo violenta, non posso fare a meno di ricordare che, se la violenza nella nostra società è per certi versi un opzione e dunque una scelta, nel mondo che descrivo nell'opera era assolutamente una necessità, con cui bisognava fare i conti tutti i giorni. Dunque in questo caso la violenza è parte integrante di un certo vissuto, e non è certo mia intenzione descriverla o narrarla in modo morboso o falso. E' un dato di fatto che va registrato per quello che è a tutti gli effetti. Che poi nel mio cinema sia comunque prevalente un dato materico di certe proporzioni, beh, questo è un altro discorso.  

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Qual è stato il suo rapporto con la produzione, e in particolare con il patron della Miramax, Harry Wenstein?


E' inutile rispondere che mi sono trovato molto bene con Wenstein e la sua casa di produzione, soprattutto poi per quanto riguarda il problema di censura a cui il film andava incontro. Dopo averlo visto insieme, Harry è stato assolutamente d'accordo con me nel dire che tutta la violenza presente nell'opera era un dato assolutamente necessario, dunque da questo punto di vista sono contento di dire che non è stato tagliato praticamente nulla. I problemi in realtà li ho avuti con le tre ore e mezza che erano uscite fuori dal primo girato. Non sapevo dove tagliare, mi chiedevo quale sarebbero stati i pezzi da eliminare, quelli superflui, ma per lungo tempo non sono riuscito ad operare nessun taglio sul film. Sono addirittura arrivato a tagliare soltanto cinque minuti, fino a quando le date di uscita del film non mi hanno costretto a rivedere ed eliminare tantissime scene che probabilmente rivedrete nell'edizione in DVD del film.


Che ci dice dell'immagine finale delle Torri Gemelle?


Quello che più amo del cinema è proprio questo potenziale di formidabile memoria storica/filmica che offre, e che  peraltro è anche uno dei tanti motivi per cui mi batto per il restauro dei film che hanno fatto la storia del cinema. Nel caso dell'immagine delle torri Gemelle, ho voluto racchiudere un ultimo possibile senso dell'opera proprio all'interno di una architettura cittadina che purtroppo non esiste più. Ma che continua però a restare imprigionata nelle maglie più intime del nostro cuore, e soprattutto in tutte le raffigurazioni di New York che verranno.


Nella sua opera è forte l'elemento citazionista presente in tante sequenze. Ci può parlare delle sue influenze maggiori e ci può soprattutto dire se il Leone di C'era una volta in America abbia  rappresentato o no un importante punto di riferimento durante le riprese?


Come ben sapete e come ho peraltro spiegato lungamente ne Il mio viaggio in Italia, il cinema italiano ha rappresentato un inesauribile fonte di ispirazione per il mio cinema, devo dunque tantissimo a tutti quei registi come Visconti, Pasolini, Rossellini, le cui opere sono un punto fisso per la carriera di qualsiasi regista. In questo mio film si sente sicuramente molto l'influenza di tutto quel cinema americano degli albori (Griffith, De Mille) ed in effetti ho voluto omaggiare un po' tutti i pionieri della settima arte che hanno contributo ad immortalare attraverso lo sguardo tutta la storia del mio Paese. Riguardo il vostro Sergio Leone, posso ben dire che C'era una volta in America è un capolavoro assoluto di tutta la storia del cinema ed è stato forse il film che più mi ha influenzato nella direzione di Gangs of New York.

 


Scorsese è inarrestabile nel suo parlare, un fiume in piena, una macchina di cinema al lavoro che ti sorprende anche quando non gira. Anche quando si limita a farci spettatori, stavolta partecipanti, del suo amore infinito per la settima arte. Veniamo ora a Leonardo Di Caprio, l'idolo delle teeen-ager, ma anche uno degli attori "emergenti" più interessanti del momento.


Com'è lavorare con Scorsese?


Non dico certo nulla di nuovo, ma si tratta dell'esperienza più totale che abbia fatto sino a questo momento. Martin è un grande perfezionista, ma  al tempo stesso riesce a mettere i suoi attori in uno stato di assoluta libertà, si sforza di capirli, li aiuta ad entrare nel personaggio, ed è davvero incredibile vederlo lavorare. Naturalmente mi sento un privilegiato, anche perché sono stato segnalato diverso tempo fa a Scorsese proprio da Robert De Niro con il quale avevo lavorato nei primi anni Novanta in Voglia di Ricominciare. E' un grande onore per me, anche perché so che Bob fino a quel momento non aveva segnalato mai segnalato a Martin nessun attore esordiente.  Dopo il successo di Titanic mi sono messo a pensare e ho deciso di non vendermi al miglior offerente  collezionando un film dietro l'altro. Ho sempre cercato di rimanere fedele ad una certa idea di cinema che ho, per poi valutare attentamente ogni copione che mi viene presentato. Nel caso del lavoro con Scorsese, la fatalità ha voluto che una decina di anni fa circa mi  capitasse di leggere il romanzo di Ashbury per poi venire a sapere che Martin aveva intenzione di trasformarlo in un film. E' chiaro che sin da qual momento non ho fatto altro che desiderare di essere io il protagonista, dunque in questo momento mi sento ancora in preda ad un sogno meraviglioso.


 


Mentre Di Caprio finisce di parlare, Daniel Day-Lewis, stuzzicato da alcune domande, prende la parola.


E' vero che è stato proprio Martin Scorsese a convincerla a tornare sul set, dopo un periodo di pausa abbastanza lungo?


In realtà Scorsese non mi ha convinto a fare nulla. Mi ha parlato, mi ha affascinato raccontandomi della sua idea del film e mi ha permesso di uscire fuori da un periodo della mia vita in cui ho avuto diversi problemi. Tornando sul set, mi sono reso conto di quanto sia bello recitare con degli stimoli giusti, e soprattutto di quanto possa essere eccitante fare qualcosa di cui poi serberai per tutta la vita un bellissimo ricordo. Non ho avuto dei grossi problemi nell'interpretare la mia parte, se non quello di voler, come mio solito, entrare anima e corpo nel personaggio, cercando di far uscire fuori tutto quello che in quel momento avevo dentro. D'altronde non c'è nulla che il cinema e dunque l'attore debba dimostrare. Bisogna soltanto aspettare. Che le cose si rivelino, che la realtà si mostri.



 


Sono le parole che chiudono l'incontro, sono forse il senso reale di quello che forse intendiamo cinema oggi. Lo s-velamento di un'identità persa, la rappresentazione di un corpo. Di un corpo a corpo.

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