Il Cristo in gola, di Antonio Rezza
Da oggi in sala a Roma dopo il passaggio al Torino Film Festival, è un film disperato, che travalica le questioni di potere, religione e divino per farsi istantanea di una solitudine universale
Il Messia crocifisso da neonato per mano del padre che martella i chiodi di persona sulle tavole di legno, con cui si chiude Il Cristo in gola, è una delle immagini più potenti di tutto il cinema di Antonio Rezza (qui per la prima volta senza Flavia Mastrella al fianco, ma con lo stesso bianco e nero dei loro corti del periodo Ottimismo Democratico), e chiarisce in maniera decisa come uno dei temi cruciali del film sia proprio la paternità: l’arcangelo Gabriele annuncia l’arrivo di Gesù stavolta a Giuseppe, non alla Madonna, e con lui torna a palesarsi più volte, per i suoi dispacci. Gesù lo vediamo spesso lavorare istericamente il legno con un seghetto, da buon figlio di falegname, mentre l’aria si riempie dei discorsi – precisamente sull’etica del lavoro, e questioni simili – di Juan Domingo Peron, Maria Eva Duarte e Jorge Rafael Videla, come fossero voci salmodianti nella testa del protagonista.
E d’altra parte ogni personaggio è sommerso dai propri pensieri (come già nel precedente Samp), espressi in lingue diverse o inventate, da Maria all’abissale monologo di Ponzio Pilato (con la voce dello stesso Rezza): l’unica a parlare in presa diretta è il Diavolo, nelle fattezze di una anziana signora di Matera che stuzzica instancabilmente Cristo con domande e provocazioni nonsense (“tu qui sei sprecato, dovresti andare all’estero”, “ti sei iscritto alla SIAE? hai pensato al diritto d’autore?”). Gesù no, lui si esprime solo con urla gutturali, e emettendo versi disarticolati si dispera tra le braccia di sua madre e compie i suoi incontri e i suoi miracoli, tutti fedelmente riportati dalla messinscena iperrealista di Rezza, dal Battista alla Maddalena a, per dire, la moltiplicazione di pani e i pesci – anche se, dichiaratamente, più che le Scritture la fonte del film è Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, letteralmente “ricalcato” quantomeno per la prima sezione.
Progetto dalla gestazione lunghissima e stratificata, Il Cristo in gola è un film disperato, anche quando si lascia andare al grottesco crudele tipico del suo autore: un sabba forsennato (su musiche pazzesche dello stesso Rezza con Pietro Pompei) ballato da un’umanità che deambula in una condizione di incoscienza e mediocrità (emblematica la visione dell’ultima cena costellata di derelitti, con Giuseppe che presenta al figlio la nuova compagna). A Gesù non rimane allora che urlare fino a perdere la voce, dimenarsi per sfuggire al sacrificio previsto per salvare gli uomini: al suo posto, il figlio infante e incestuoso sarà lui a salvarci, morendo in fasce e in croce, dalla nascita del cristianesimo.
Come già per Samp, è difficile trovare oggi un affresco più preciso della questione meridionale di questo, tra le altre cose (assenza dello Stato, vetrinizzazione del folkloristico, rifiuto generazionale della dimensione trascendentale ancestrale…). La gittata politica del film di Rezza supera perciò il discorso su potere, religione, e divino, per farsi abbacinante istantanea di una condizione di solitudine universale: questo Cristo non ha apostoli, non ha discepoli, verosimilmente non ha neanche insegnamenti da dare. Nasce però comunque già perseguitato, e questo volerlo ossessivamente braccare, come fa lo sguardo esagitato e sgranato della mdp, ancora una volta eccede la questione della mera sacra predestinazione, per farsi dolorosissimo fardello esistenziale condiviso.
Regia: Antonio Rezza
Interpreti: Antonio Rezza, Stefania Saltarelli, Maurizio Catania, Gianmarco Balsamo, Domenico Vitucci, Paolo Zanardi, Maria Bretagna, Federico Carra, Giordano Rezza
Distribuzione: RezzaMastrella con Barz&Hippo
Durata: 75′
Origine: Italia, 2022