Il Decameron, di Pier Paolo Pasolini

Codifica l’iconografia dell’opera di Boccaccio non in senso figurato, ma metaforico. Usa il clima di liberazione pulsionale di una realtà arcaica come critica all’esecrazione borghese del sesso

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Ho scelto Napoli contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano”. Pier Paolo Pasolini.

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Napoli come punto di raccordo tra passato e presente. Come spazio fisico per la cristallizzazione di un tempo mitologico (ma mai mitizzato) in cui raccontare, per metafora, il declino dei valori morali dell’Italia contemporanea. Un luogo meta-spaziale con cui Pasolini (re)inquadra la raccolta di novelle di Boccaccio, declinandone lo spirito verso i lidi esperenziali dell’attualità. Perché ne Il Decameron tutto tende alla (ri)scoperta (o forse alla riesumazione) di un oggetto tanto occulto per l’alta borghesia italiana, quanto strumentalizzato dalle élite di sinistra: il sesso e il suo carattere osceno. Uno sguardo polemizzante, che ad un occhio attento, mostra al tempo stesso i tratti di una sintesi poetica e di un nuovo orizzonte espressivo. Giunto qui ad un punto cardine della sua riflessione artistica, Pasolini si trova a contaminare la dissoluzione ideologico/spirituale della classe borghese di Teorema e Porcile, con la collusione di arcaicità e post-colonialismo di Appunti per un’Orestiade africana (1970), in funzione di un retroattivismo che parli del presente/futuro.

Nasce così la celebre “Trilogia della vita” inaugurata, per l’appunto, da Il Decameron e proseguita con I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. Un trittico di film con cui Pasolini porta a conclusione le precedenti traiettorie ideologiche, rileggendole alla luce di uno spirito più conciliatorio, meno destabilizzante, in cui indagare l’essere umano (e la sua nuda corporeità) attraverso il filtro di una vitalità arcaicizzante. E nell’adattare i racconti di Boccaccio, immersi in una realtà distante ma attiva (in parte) negli spazi del presente, il regista formula un inno alla vita, inteso come forma più alta e potente di opposizione al declino valoriale dei tempi correnti. E la raggiunge non con l’oggettivazione di un percorso etico e retto, ma attraverso l’esaltazione degli istinti primordiali. Con la messinscena, cioè, delle pulsioni più basiche e superficiali che contraddistinguono in profondità l’individuo, e che diventano veicolo di liberazione dell’uomo dalle catene del pensiero (attualmente) dominante.

In tutti i segmenti de Il Decameron si assiste, di fatto, ad una declinazione fattuale dell’uomo/donna nella sua cornice pulsionale. Ogni personaggio è legato al sesso: agisce o cade in disgrazia in suo nome, ragiona e si muove in sua totale funzione. Sono essi figure in continuo divenire, che come dichiarato da Pasolini nella sua celebre lettera di abiura, fungono da “rappresentazioni dei corpi e del loro simbolo culminante: il sesso”, per l’appunto. Un approccio visibile in tutte le frazioni narrative, ma che giunge alla sua più alta teorizzazione formale nella novella/sequenza di “Masetto l’ortolano nel convento”. Qui il “finto” contadino sordomuto non ha neanche una soggettività definita. È un mero oggetto sessuale, che di volta in volta passa tra le mani (o tra le cosce) di suore infoiate, prede di un’eccitazione tanto dissacrante quanto conciliatoria. Ed è allora in quest’ottica corporale che il cineasta inquadra i suoi numerosi protagonisti, ridotti qui a veicolo, mezzo e strumento di critica alla decadenza delle relazioni umane in tempi di modernità capitalistica.

E nel mettere in scena un’orizzonte vetusto e allo stesso tempo attuale, che colleghi la liberazione sessuale del passato alla contemporanea esecrazione della/e oscenità, Pasolini fa de Il Decameron una cornice mitologico/parallela, in cui è possibile (ri)cercare il piacere nelle sue vesti più primitive. E ne codifica l’iconografia non in senso figurato, ma metaforico, per riesumare i codici culturali di una Napoli arcaica (e pre-capitalistica) nell’Italia del presente. Boccaccio allora diventa la base per un mondo altro, in cui il parallelismo storico delle atmosfere deve necessariamente sostituirsi all’immaginario, alle riflessioni e al pensiero pasoliniano. E non è un caso che a decretare la fine nel film sia il volto di Pasolini, con il discepolo di Giotto (interpretato dal cineasta) a legare tra loro i vari scenari, direzionandoli verso una chiusura onirica. La testimonianza di una posizione onnisciente del regista, che con il suo sguardo capillare apre il racconto allo spazio del sogno. Che poi non è nient’altro che il sogno di un futuro diverso. Ma poco importa, alla fine, se esso si inveri o meno. “Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?”.

Titolo originale: id.
Regia: Pier Paolo Pasolini
Interpreti: Ninetto Davoli, Franco Citti, Vincenzo Amato, Maria Gabriella Maione, Angela Luce, Giuseppe Zigaina, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Rizzo, Guido Alberti, Elisabetta Genovese, Giorgio Iovine, Lino Crispo
Durata: 110′
Origine: Italia, 1971

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
2.5 (4 voti)
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