Il figlio di Hamas, di Nadav Schirman

Non ci si può fidare di nulla, probabilmente neanche di questo film che sfrutta le ansie e le questioni calde di un presente in cui incombe la paura del terrorismo.

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A parlare, nei panni allucinati di se stesso, è Mosab Hassan Yousef, figlio di uno dei fondatori del Movimento Islamico di Resistenza di Hamas, considerato terrorista dall’Unione Europea e assolutamente anti israeliano. Dopo una iniziale e naturalmente indotta avversione nei confronti di Israele, da giovanissimo gli viene offerto di collaborare proprio con i servizi segreti israeliani dello Shin Bet. Dopo aver assistito alle crudeltà con cui quelli di Hamas torturano e uccidono i prigionieri, Mosab decide di schierarsi dall’altra parte, di diventare un informatore per cercare di porre fine alle stragi di cui quelli di Hamas sono responsabili, soprattutto con i continui attacchi kamikaze. Per dieci anni Mosab permette allo Shin Bet di catturare terroristi e di evitare centinaia di morti ma agli occhi dello Shin Bet è soltanto una pedina e il suo ideale pacifista finisce per scontrarsi con le sole intenzioni politiche dell’intelligence. Quando il suo onesto reclutatore viene fatto fuori per avergli concesso una fiducia non prevista dai protocolli, si rifugia in America dove però sembra importare soltanto il fatto che sia figlio di un terrorista. Nonostante l’accoglienza in una comunità cristiana, quando decide di rivelare la sua storia, è accerchiato soltanto da paura. Questa paura cresce al punto che l’America vuole espellerlo, cosa che per lui significherebbe morte. E allora ecco che l’onesto reclutatore si fa avanti, testimonia in sua difesa rischiando una grossa accusa di tradimento che però non arriva e quindi Mosab riesce a diventare un caso mediatico e a rimanere negli Stati Uniti.

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Il film, vincitore del Premio del Pubblico – World Cinema Documentary al Sundance e tratto dal libro omonimo di Mosab Hassan Yousef, altro non è che una lunga intervista ai due protagonisti all’interno della quale si alternano preziosi materiali di archivio, scene rubate ai telegiornali, scene un po’ banalmente ricostruite: tutte solo come dei flash, dei brevi istanti di testimonianza e di conferma della parola ascoltata. Dei quadri volti a tratteggiare chiaramente le linee di un genere tra lo spionaggio e il thriller si susseguono tra immagini cupe e musiche ad alta tensione che deludono per il complesso di autocompiacimento di cui quest’opera (prodotta anche da Israele) sembra vantarsi, artificio che finisce per sovrapporsi alla potenza della storia, certamente rara.
La verità non è da nessuna parte, forse solo nell’amicizia o magari neanche in quella. Non ci si può fidare di nulla, probabilmente neanche di questo film che più che per motivi artistici o documentaristici sembra essere testimone dell’accusato, arringa cinematografica come piace all’America, esaltazione della bontà israeliana nonostante tutto o, peggio, prodotto commerciale che sfrutta le ansie e le questioni calde di un presente in cui incombe la paura del terrorismo e la perenne ricerca di un cattivo da additare.

Interpreti: Mosab Hassan Yousef, Gonen Ben Yitzhak, Sheikh Hassan Yousef
Titolo originale: The Green Prince
Durata: 101’
Origine: Germania, Gran Bretagna, Israele, 2014
Distribuzione: Wanted

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