Il funerale delle rose, di Toshio Matsumoto

Opera sperimentale e metacinematografica sul mondo queer nel Giappone di fine anni ’60. Disponibile su MUBI.

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C’è stata una nouvelle vague anticonformista, politica, sperimentale anche in Giappone. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 una nuova generazione di cineasti ruppe con le tradizioni estetiche, narrative e sociali assorbendo le influenze del cinema europeo e le rivolte studentesche delle università. Oltre ai nomi di Kōji Wakamatsu, Nagisa Ōshima e Seijun Suzuki c’è anche quello di Toshio Matsumoto, scomparso un paio d’anni fa, che nel 1969 realizzò un’opera prima liberissima e inclassificabile destinata per decenni alla cristallizzazione del mito e dell’invisibilità.

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Funeral Parade of Roses (Il funerale delle rose) venne inevitabilmente adottato dalla comunità queer come uno dei primi titoli a raccontare il travestitismo e il mondo gay degli anni ’60. Il protagonista è Eddie, un travestito che frequenta i locali notturni di Tokyo e ha una relazione con Gonda, il proprietario del Genet, il locale dove si esibisce e prostituisce. In realtà il film racconta di un triangolo amoroso tra questi due personaggi e Leda, un’altro omosessuale più anziano rispetto a Eddie e più legato alle tradizioni. Nel mezzo c’è il contesto militante delle manifestazioni sessantesche e quello underground del cinema e delle droghe.

La narrazione non procede in modo lineare. Si passa dalla fiction al film-nel-film, con flashback e anticipazioni temporali che frammentano il racconto e mettono continuamente in discussione l’istanza narrante. La macchina da presa indulge su movimenti sinuosi lungo le bianche forme dei corpi, che poi inframmezza a primi piani godardiani, interviste agli attori sul set, lunghi piani sequenza su party lisergici che potrebbero durare all’infinito.

Matsumoto guardava certamente al cinema di Jonas Maekas (espressamente citato) e Dusan Makavejev. A una cinefilia colta e figlia del suo tempo – la locandina del pasoliniano Edipo Re è ricorrente e anticipa la tragica e incestuosa soluzione finale – il regista giapponese aggiunge una concezione metamorfica del tessuto filmico, contraddistinta da un continuo rimescolamento dei generi cinematografici e sessuali. Se un film è un oggetto espanso indefinibile, anche l’identità si rivela nel suo continuo mascheramento/annullamento. Il melò diventa documentario che diventa horror per definirsi come gesto espressivo di rottura e con-fusione. Non è un caso che il film si chiuda con una citazione di René Daumal perfettamente integrata alla complessità stilistica dell’opera: “Lo spirito di un individuo raggiunge la propria assolutezza attraverso la negazione incessante“.

Disponibile in versione restaurata su MUBI (gratis per 30 giorni accedendo da questo link)

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