Il Gattopardo, di Luchino Visconti

Si assiste al melodramma, alla musica, ai grandi scenari, alla fine di un’epoca dentro le atmosfere malinconicamente crepuscolari così congeniali al regista. Palma d’oro al Festival di Cannes

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Il fascino esercitato dal romanzo di Tomasi di Lampedusa su Luchino Visconti è, a pensarci bene, intuibile. Lo scenario che fa da fondale alla storia del romanzo è quello dello sbarco in Sicilia dei Mille garibaldini. Ma ad avere rilievo per la poetica del regista è soprattutto il significato preciso che una tale rivoluzione aveva in una regione in cui erano consolidati, con una maggiore intensità e più radicali effetti, i privilegi e le prerogative dell’aristocrazia. I Mille, non solo portavano idee e tensioni nuove nel corpo sociale siciliano, ma soprattutto scardinavano le relazioni sociali, i feudalesimi tradizionali, riassorbendo dentro gli ideali rivoluzionari, quei privilegi antichi. È la caparbia volontà del Principe di Salina a trovare una soluzione che lo renda partecipe della dialettica storica che, altrimenti, in quanto aristocratico, lo vorrebbe escluso. Il tutto cambi, affinché nulla cambi, è la matrice di ogni trasformismo divenuto forma di convivenza e pratica quotidiana anche nell’Italia post-unitaria, con inevitabili e ininterrotte ricadute nel nostro presente.
Una vicenda del genere con protagonista un’aristocrazia al tramonto e l’insorgere di nuovi assetti politici e nuove istanze rivoluzionarie, costituiva il brodo di coltura della elaborazione artistica del regista oltre che una perfetta sintesi del suo pensiero da sempre dibattuto tra le ascendenze aristocraticamente nobili e una formazione che lo ha assimilato ad un comunismo esplicito e sempre stridente perfino con il suo estetismo connaturato. All’interno di queste contraddizioni esistenziali è nato il suo cinema ed è di queste ricadute che si deve tenere conto nel momento della analisi delle sue opere. Temi questi e idee che si riflettono sul suo sentire anche quando Visconti immagina la gestione del potere. La sua idea di governo è dominata dalla attenzione alla cultura che solo in una seconda istanza avrebbe dovuto e potuto conciliarsi con le istanze più quotidiane e prosaiche della politica rivolta al resto della cosa pubblica. Tutto questo reso esplicito e facilmente leggibile in Ludwig ,film cruciale per un approfondimento delle riflessioni del regista milanese sulla portata di questi temi.
È quindi del tutto conseguente che una storia come quella raccontata nel romanzo di Tomasi di Lampedusa esercitasse un fascino assoluto su Visconti che sicuramente, assimilandone totalmente gli assunti e calandosi perfettamente nelle atmosfere crepuscolari della narrazione legata ai monologhi interiori del Principe nella migliore tradizione innovativa del Novecento, mette in scena uno dei film più intimamente legati alla sua natura intellettuale, in cui si dibattono le due anime, in cui si manifesta quella ricerca di sintesi tra quelle due modalità di interpretazione della vita sociale. Il suo film precedente – fatta salva la parentesi divertita di Boccaccio ’70 – era stato Rocco e i suoi fratelli, che costituiva a suo modo il canto del cigno di una purezza proletaria che si andava sgretolando sotto i colpi della nuova condizione di benessere laddove si frantumavano i valori antichi. Con Il Gattopardo Visconti sembra volere indagare sulle origini e risalire il fiume di quelle trasformazioni.
Si affida al melodramma, alla musica, ai grandi scenari ai quali il suo cinema ci ha abituati, prima di rinchiudersi, nell’epilogo finale, negli appartamenti della Roma dal cuore antico e dall’animo volgare o rifugiarsi in un Ottocento pieno di contraddizioni. Ancora, con Il Gattopardo, Visconti costruisce, grazie alla musica di Verdi e lo sguardo ampio su una Sicilia che ha amato sin dai tempi di La terra trema, un film che ha l’aria e il sotterraneo desiderio di volere essere totale, come lo sarebbe stato il successivo Ludwig, di quella totalità estenuante che lascia sfinito l’autore dopo la messa in scena dell’opera.
Forse è per questa vitalità che la sua direzione sa trasmettere che il film vive di quel fuoco del melodramma acceso e sensuale che solo la bellezza dei suoi attori, nel migliore periodo della loro attività potevano offrire. Alain Delon e Claudia Cardinale, con la storia d’amore vissuta dai loro personaggi, rappresentano la trama sensibile e sensualmente onnipresente nello sviluppo della storia che comincia con una nascita e finisce con una fucilazione che preannuncia già la Restaurazione.
Visconti riversa nel film quella stessa fascinazione che lo ha portato ad amare quella letteratura che meglio interpretava i suoi originari sentimenti, legati a doppio filo con un mondo in via d’estinzione, nell’atto di trasformarsi in altro. Visconti, quasi come un Gozzano del cinema, sa coltivare progressivamente e con sfaccettature differenti questi sentimenti, fino all’apoteosi, di questa riflessione che sarà Gruppo di famiglia in un interno.

È in questa prospettiva che Il Gattopardo, insieme a Ludwig rappresenta con pienezza di espressione il mondo interiore di Visconti, legato alle atmosfere malinconicamente crepuscolari dei romanzi di Proust, ad esempio, dai quali avrebbe voluto trarre un film o da quelli, sempre interpreti di un tempo arcaico, ma carico di sapienza contadina, come le vicende di Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga scrittore che Visconti aveva già frequentato all’inizio della propria carriera. Torna, quindi, la Sicilia terra d’elezione per il regista. Qui Visconti si trova a proprio agio, nonostante la distanza non solo geografica dai luoghi di nascita. La Sicilia, infatti, forse meglio che altri posti d’Italia fa emergere quelle contraddizioni sulle quali il cinema di Visconti si è fondato. La sontuosa ostentazione della ricchezza e l’aristocratica riconoscibilità, sembra abbiano concluso la propria parabola. Spetterà a Fabrizio, l’ultimo erede del Casato, trovare la chiave di volta per sopravvivere, stanando negli avversari ogni tentativo di eliminare i privilegi di cui fino allora ha goduto. È la lungimiranza del Principe a trovare la soluzione. Con pubblica ostentazione vota favorevolmente per l’annessione della Sicilia al nascente Regno d’Italia. È il trasformismo gattopardesco, è l’immobilità di una classe aristocratica che ora si risveglia per salvarsi, andando in direzione contraria a quella che l’opinione prevalente suggerirebbe. Il Principe finge di appoggiare il mutamento quale salvacondotto per il futuro. Lo sguardo di Visconti si divide tra una generale benevolenza verso il Principe – personaggio affidato all’interpretazione di Burt Lancaster attore che sarebbe stato suo alter ego nel conclusivo Gruppo di famiglia in un interno – e una distanza tanto faticosa, quanto necessaria, verso una classe sociale che conosce. La mette in scena, sin dall’inizio nella sua immobilità consueta, legata i suoi riti (il rosario, il tè…), già pronta ad avvizzirsi, ignara di quanto tutto attorno accade. È anche questo, crediamo, il senso della splendida sequenza iniziale, ora valorizzata, come il resto del film d’altra parte, dal recente e imperdibile restauro realizzato dalla Cineteca di Bologna. Una sequenza che con un dolly lento e inesorabile ci porta dentro il palazzo patrizio della famiglia del Principe di Salina e ci introduce alle atmosfere sonnacchiose in cui anche i pizzi d’uncinetto sembrano soffrire della stessa estiva indolenza, in cui sul lucido dei mobili sembra brillare la polvere leggera dell’aria estiva.
Il Gattopardo è il crocevia di questi sentimenti, della gioventù (Tancredi e Angelica) e della vecchiaia e tutto emerge in quella splendida sequenza del ballo che, come ogni storia del cinema annoterà, occupa circa un terzo dell’intero film. Una lunga e a tratti visionaria sequenza in cui l’ebrezza della musica sembra assorbire ogni malanno esistenziale e anestetizzare ogni dolore morale.
Poi, tutto torna nella realtà, della storia e tutto volge verso la trasformazione, ma poiché nulla si distrugge, come scrive Tomasi di Lampedusa ci si dovrà preparare ad un mondo di “leoni e gattopardi”, sostituiti da “sciacalli e iene”. Su questo riflette Visconti nei 187 minuti di durata del film che, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1963 nella sua sedicesima edizione, resta un film eterno nei suoi assunti e magnifico per gli occhi.

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Regia: Luchino Visconti
Interpreti: Burt Lancaster, Claudia Cardinale, Alain Delon, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Romolo Valli, Lucilla Morlacchi
Origine: Italia, Francia, 1963
Durata: 187’ (vers. Est. 205’)
Genere: Storico, drammatico

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.82 (17 voti)
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