Il Gattopardo, di Tom Shankland, Laura Luchetti, Giuseppe Capotondi
Il romanzo di Tomasi di Lampedusa del 1958, adattato nel 1963 nel film di Visconti, torna nella sua versione peggiore, priva di un idea estetica e politica, svuotando di senso il testo originale

Il Gattopardo, romanzo postumo del 1958 di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è stato tra le opere più discusse dell’intero ‘900 italiano, considerato da un ambiente culturale a trazione della sinistra, in particolare da Sciascia e Moravia, come un prodotto di destra (con grandi polemiche che seguirono l’attribuzione dello Strega a questo anziché a Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini, uscito lo stesso anno e più apprezzato dal mondo intellettuale). Da qui la scelta di affidare la trasposizione cinematografica del romanzo ad un autore come Luchino Visconti, il conte rosso: abbastanza vicino alla nobiltà per capirne le logiche, ma in sintonia con il PCI, quindi interessato a fornire un’interpretazione di segno opposto del romanzo di Tomasi di Lampedusa.
Tante se ne potrebbero raccontare ancora, ma questo basta per comprendere come Il Gattopardo sia stato un grande catalizzatore del dibattito interno nell’Italia del secolo scorso in virtù delle forti idee, estetiche e politiche, che stavano alla base tanto del libro quanto del film. Esattamente un’idea estetica e politica è ciò che manca all’adattamento distribuito da Netflix e diretto da Tom Shankland, Laura Luchetti e Giuseppe Capotondi, banalizzazione di una delle più importanti opere della cultura italiana. Chiaramente non esiste nulla di sacro ed intoccabile, nessun testo può essere affrontato senza metterlo in discussione; anzi il valore del cinema (ed in questo caso della televisione) sta proprio nella sua forza dissacrante, nella possibilità di rivedere qualcosa alla luce di nuove consapevolezze e, perché no, portare a galla i limiti che con il tempo mostrano capolavori di una volta. Negli ultimi anni abbiamo scoperto che si possono toccare Suspiria o Nosferatu, con ottimi risultati d’altronde.
Il Gattopardo (serie) non ha però una sua ragion d’essere, oltre quella di sfruttare economicamente una delle proprietà intellettuali di maggior valore in Italia. Non riesce a trovarla nella messinscena così come non ci riesce con le interpretazioni, non ci riesce con la scrittura e nemmeno nella ricostruzione d’epoca. Tutto ciò perché sembra mancare una visione che ne motivi l’esistenza. Ne è un segnale inequivocabile la scelta degli attori protagonisti: Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Deva Cassel e Saul Nanni sono quattro volti belli, bellissimi, ma questo sembra l’unica causa dietro il loro casting. Perché per il resto non c’è alcun tipo di coerenza tra le loro interpretazioni, recitano in modi diametralmente opposti. Quando sono insieme il sempre sofferente don Fabrizio e il fastidiosamente ammiccante Tancredi ci si chiede come sia possibile che facciano parte dello stesso universo. Tutti sono poi impegnati nel fornire una propria versione (macchiettistica e mai convincente, ma sempre diversa) dell’accento siciliano. Si rimpiange il tempo in cui, se si sceglievano attori di provenienza distinta, si aveva poi la lucidità di comprendere che il risultato sarebbe stato migliore facendoli doppiare da voci più adatte, come nello stesso Gattopardo di Visconti.
E la mancanza di significato si rispecchia in tutti gli altri elementi della serie. Si pensi ai costumi e alle scenografie, perfetti forse per gli appassionati di filologia (non di cinema, le due cose spesso si respingono) e quindi giusti da un punto di vista manualistico, ma svuotati di senso da un’estetica estremamente patinata, che nella produzione Netflix accomuna opere come lo stesso Il Gattopardo, Bridgerton o La legge di Lidia Poët. Si potrebbero montare di seguito tre scene provenienti da ciascuna delle tre d’altronde senza avvertire un effettivo scarto.
Se poi la Sicilia del romanzo del 1959 era la Sicilia di Tomasi di Lampedusa, mentre quella del film del 1963 era la Sicilia di Visconti (d’altronde ciascun autore rielabora la realtà secondo il proprio sguardo), nella serie siamo di fronte ad una Sicilia da spot pubblicitario, da stereotipo superficiale di chi non riesce a cogliere la profondità dei luoghi. Quella Sicilia tutta calura, mare e granita, bellezza decadente, che verrebbe raccontata da un operatore turistico che non c’è mai stato ad un cliente sprovveduto, tipica dell’immaginario che uno dei più grandi registi siciliani, Franco Maresco, definisce criticamente camillerismo, ormai normalizzato da prodotti televisivi di dubbio gusto, a cui adesso appartiene anche Il Gattopardo.
Regia: Tom Shankland, Laura Luchetti, Giuseppe Capotondi
Interpreti: Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Saul Nanni, Deva Cassel, Paolo Calabresi, Astrid Meloni, Francesco Colella, Greta Esposito, Mario Patanè, Dalila Ricotta, Ruben Mulet Porena, Marcus Marcelli, Giuseppe Palazzolo, Francesco Di Leva
Distribuzione: Netfix
Durata: 6 episodi da 55′ circa l’uno
Origine: Italia, UK, 2025