Il gioco di Gerald, di Mike Flanagan

Highlight di Netflix del 2017, una buona trasposizione dell’opera di King diretta dal regista horror Mike Flanagan. L’impasse della donna, ammanettata al letto, diventa un incubo “a occhi aperti”

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L’anno appena conclusosi vanta il merito indiscusso di avere riportato, più o meno felicemente, sullo schermo una vasta scelta di trasposizioni kinghiane d’eccezione, non soltanto il popolare It firmato Muschietti, o il deludente La torre nera, diretto dal regista danese Nikolaj Arcel, ma anche film che riprendono opere tendenzialmente annoverate nella produzione “minore” dello scrittore del Maine, come questo Gerald’s Game (1992), portato sullo schermo (ancora Netflix) da Mike Flanagan. Proprio quel Flanagan che si era già fatto conoscere come uno dei registi dell’horror più promettenti, dall’esordio con Absentia (2011), passando per Oculus – Il riflesso del male (2013) e Somnia (2016), e poi Ouija – L’origine del male (2016), dove sembrerebbe ritornante lo sguardo gettato indietro sui traumi del passato, o meglio, il cortocircuito tra un’infanzia più o meno rimossa e le conseguenze nel presente. Sembra dunque coerente, per l’opera di questo regista, incontrare alla fine Stephen King, ma la sorpresa è che il confronto tra i due avviene su un terreno che, almeno per una volta, non ha molto del genere horror, ma si muove invece nei meandri dell’introspezione psicologica e lo fa in una circostanza incastrata tra l’onirico e l’allucinato, dove (quasi) nulla accade realmente se non nella mente della protagonista Jessie, interpretata da una magnifica Carla Gugino.
Le trasposizioni cinematografiche di storie talmente interiori, ai limiti dell’“infilmabile”, rasentano spesso un limite pericoloso, che è sempre lì in agguato a ricordare al regista lo spirito dell’opera trattata, da mantenere al costo di tagli che rischiano sempre di deludere i “puristi” della letteratura o modifiche alle volte necessarie nel passaggio da un testo scritto a uno di natura diversa. Sembra che Flanagan conosca bene la posta in gioco: sceglie, per l’appunto, di restare fedele al King che conosciamo, eppure dosa le energie del film con una semplificazione di apparizioni fantasmatiche e cambiando il momento cruciale della morte del marito Gerald (Bruce Greenwood), stavolta stramazzato al suolo per un infarto dovuto ad eccesso di pillole blu, mentre la moglie Jessie rimane ammanettata al letto, incapace di reagire agli eventi dei quali sarà spettatrice obbligata. Ottima trovata, per un film che intende raccontare in primis dell’impotenza della donna, la quale in King uccideva accidentalmente il marito con un calcio, sottraendosi così al gioco erotico architettato da entrambi inizialmente per risvegliare la passione.

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La regia di Flanagan è sottile e pertinente; la plongée totale dell’inizio, che schiaccia i due coniugi nella loro camera da letto, è l’indizio che il regista vuole lanciarci fin da subito, nonostante la colonna sonora richiami – un po’ ironicamente – una tipica commedia romantica all’americana. Jessie e Gerald Burlingame – già solo in questo cognome King nascose la chiave della sua storia –, preparano le valige per un weekend al lago e, con un susseguirsi di dissolvenze, li vediamo apparire e scomparire proprio come i fantasmi che saranno nel seguito del film; in macchina, alla frase di Gerald – «Ci farà bene!» – seguono una serie di riferimenti nefasti volti a contraddire le sue parole (dal randagio che sbrana una carcassa d’animale alle notizie alla radio che parlano di un profanatore di tombe), ulteriori tracce disseminate sapientemente, sorte di flashforward calati nella storia a giuste dosi. Eppure, l’atmosfera intorno alla coppia è del tutto serena; Flanagan ci suggerisce – di nuovo – che il vero pericolo proviene da dentro: dentro la casa appunto, apparentemente nido d’amore ideale; dentro la camera da letto coniugale, luogo dove i due sembrerebbero risorgere nell’intimità in un primo momento; dentro il rapporto di coppia, anch’esso solo in apparenza felice e invece profondamente turbato da tempo; e infine, dentro il bagaglio inconscio di Jessie, che ha affrontato la sua vita in modo sempre irreprensibile, ricacciando indietro i mostri del passato – un padre molestatore – e nascondendosi ogni volta all’insorgere dei problemi.

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La metafora del vedere regge tutto l’impianto, filmico e della storia: Jessie sarà obbligata ad assistere alla morte del marito e, con essa, al pasto del randagio, venuto a reclamare la sua carne della sopravvivenza; da sonnambula, sarà costretta a riattraversare immagini dolorose del passato replicando l’impasse fatale nel rapporto col padre; nell’oscurità, verrà osservata da quel profanatore di tombe di cui avevamo già sentito parlare – qui la paura del buio si ergerà a paura per tutta un’infanzia collettiva –, anch’egli paralizzato di fronte alla donna, sorta di duplicato in versione gore dell’impotenza (sessuale) del marito.
Si tratta, quindi, di un universo perturbante, popolato di mostri reali perché venuti dalla famiglia; e tinto di oscurità sfumate di rosso fuoco, come quella dell’eclissi totale alla quale Jessie assiste da bambina, simbolo esemplare dell’adombramento dell’infanzia. Il film diventa, allora, molto più di un racconto che rievochi traumi passati per flashback, bensì, con i suoi cortocircuiti della memoria, rende le ombre figure palpabili, dove al fondo è la “paura del vedere” a chiamarci tutti direttamente in causa.

 

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