Il giustiziere della notte, di Eli Roth
Un film di clamorosa semplificazione di ogni assunto che è però interessante nel suo essere specchio di un dibattito accesissimo negli USA. Da Charles Bronson a Bruce Willis
Nel 2018 non poteva certo passare inosservato un remake de Il giustiziere della notte. Scritto dal talento ipercinetico di Joe Carnahan (ricordate Narc?) e diretto dall’occhio ipertrofico di Eli Roth (al suo secondo remake dopo Knock Knock), questo è un film difficile da maneggiare. Schiacciato da un lato dalla controversa fama dell’originale e dall’altro dal feroce attacco critico scatenatosi in America. Molte recensioni hanno infatti posto l’accento sulla terribile coincidenza temporale con i tragici fatti di sangue di Parkland, sottolineando la natura profondamente reazionaria del film: si parla apertamente di inaccettabile spot per le armi. E se ci fermassimo all’aspetto meramente ideologico, poche storie, la potremmo finire qui. Ma c’è di più, il cinema è sempre molto di più di quel che fa vedere…
Paul Kersey (un Bruce Willis, come sempre, efficace) è un medico che vive a Chicago – proprio la città dove il personaggio di Charles Bronson si rifugiava nel finale del film capostipite – e lavora in un pronto soccorso dove salva le vite di poliziotti e criminali testimoniando una guerra urbana in atto. A casa, al contrario, ha una condizione idilliaca: una moglie felice che lo ama e lo vizia, una figlia adolescente bellissima che sta per andare al college, una grande casa in periferia e una pace nei rapporti interpersonali sottolineata sino all’esasperazione. Tutto questo viene travolto dal brutale furto finito male con la morte della moglie e il ferimento di figlia ridotta in coma. Cesura. Le forze dell’ordine indagano senza troppi risultati e l’individuo americano cosa fa? Deve difendersi da solo, come gli suggerisce il suocero in una scena di raggelante schiettezza: devi fidarti solo del tuo fucile.
Il medico che salva le vite si trasforma improvvisamente in un “mietitore” che libera le strade dalla criminalità, uccidendo senza pietà criminali e spacciatori che incontra (soprattutto ispanoamericani: i muri trumpiani entrano anche nel cinema?) e dando la caccia ai criminali che hanno distrutto la sua famiglia (un cambiamento di traiettoria importante rispetto al film originale dove Bronson era animato da una cieca furia vendicativa al di là dei singoli responsabili del suo dolore). Ecco che il film di Roth ripercorre idealmente il romanzo di Brian Garfield e il film di Michael Winner – cambiando però il mestiere del protagonista da architetto a medico, rendendolo quindi ancor più metaforico – ma ne smorza ogni conflitto interiore, semplificando (e di molto) ogni dilemma morale. Perché se l’architetto obiettore di Charles Bronson incontrava la sua arma immergendosi nell’immaginario del west(ern) e richiamando senza mezzi termini il mito della frontiera; qui il “passaggio” si risolve tutto sulle anestetiche frontiere del web e sui video di propaganda delle armi che Bruce Willis guarda compulsivamente. Le due referenze immaginarie si portano dietro modalità compositive opposte: il film del ’74 configurava una metafisica notte friedkiniana di sconvolgente violenza (l’ambiguità ideologica era parte integrante di un sotto-filone New Hollywood che andava da Sam Peckinpah a Don Siegel); il film di Roth si rifugia invece in un gusto pulp alla Robert Rodríguez con una serie di sequenze da buon action movie che non si elevano mai sopra la media.
Ma se fosse questa la cosa interessante? Eli Roth non è Michael Winner o John McTiernan, non ha il talento registico per oltrepassare quelle superfici, ma sa bene che il tema che maneggia è urgente e divisivo in USA. Per questo ha l’intelligenza di trattare tutto con ironia giocando con le sue superfici e lasciando lo spettatore libero di sottrarsi da quelle gabbie concettuali. Ecco che se Charles Bronson diventava un mito nei racconti delle persone per strada, una sorta di fantasma fuori campo che aleggiava nelle strade di New York e colpiva a caso come un angelo vendicatore (non troppo diverso dal Travis Bickle di Taxi Driver), il giustiziere 2.0 di Bruce Willis è perennemente immerso in dispositivi di visione e videocamere di controllo che lo riprendono creando una curiosità morbosa nel vedere e rivedere le azioni del mietitore sui social network.
Insomma questo è un film di clamorosa semplificazione di ogni assunto che è però interessante nel suo essere specchio di un dibattito accesissimo negli USA… un dibattito che si risolve molto spesso proprio nella semplificazione di un tweet! Hollywood, allora, si riconferma come straordinario catalizzatore di incubi e pulsioni sociali parlando del (e al) suo presente. E favorendo ancora, perché no, un interessante “dibattito critico”.
Titolo originale: Death Wish
Regia: Eli Roth
Interpreti: Bruce Willis, Vincent D’Onofrio, Elisabeth Shue, Dean Norris, Camila Morrone, Jack Kesy, Kirby Bliss Blanton, Mike Epps, Len Cariou, Kimberly Elise, Beau Knapp, Ronnie Gene Blevins
Origine: USA, 2018
Distribuzione: Eagle
Durata: 107′