"Il grado zero della serialità": "Suspect Zero" di E. Elias Merhige

L'ossessione del film è quella di poter guardare nuovamente: ossessione che rende corpo e forma attraverso la continua metaforizzazione dell'occhio: la ricorrenza dell'occhio nel film non è casuale: occhio vitreo, organo fisico e mentale, legame che cerca di guardare al di là della superficie del visibile.

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Quello del serial killer movie è il più facile e il più banale dei sottogeneri del thriller (anche se ragionare per generi e sottogeneri contiene già in sé il rischio della semplificazione banale). La sua schematicità risiede nella strutturazione (seriale, appunto) che ne costituisce la base sempre identica, film dopo  film. Una ripetizione degli eventi (gli omicidi) secondo un codice che deve essere decriptato per arrivare alla risoluzione del caso (e all'arresto dell'assassino). In questo senso il serial killer movie costituisce il grado zero del thriller, la sua riduzione a schema potenzialmente ripetibile all'infinito (senza che qui la ripetizione diventi forma espressiva, rottura della linearità narrativa).

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È proprio a partire da queste considerazioni che Suspect Zero – ultimo arrivato del fecondo filone degli assassini seriali – rivela un suo particolare motivo di interesse, proprio perché si rivela ben presto uno strano prodotto ibrido, forma duplice che dispiega totalmente e che, allo stesso tempo, tenta di superare il "già visto" del cinema.


Mehrige, già regista de L'ombra del vampiro, nonché di numerosi videoclip (soprattutto per Marylin Manson), mette in gioco nel film una sorta di movimento a spirale del genere, quasi che il film non potesse (intenzionalmente) far altro che mostrare i suoi riferimenti per "differenze e ripetizioni". La struttura narrativa del film è di per sé già codificata, ma all'interno di questa struttura, Mehrige sospende gli elementi citabili mostrandoli come tali, come variazioni orizzontali all'interno di una struttura ripetibile all'infinito. Il gioco potrebbe partire dai corpi: da Aaron Eckhart che ricorda William Petersen in Manhunter (l'identificazione totale del detective con l'assassino), Carrie-Ann Moss clone di se stessa in Kalifornia di Dominique Sena, fino a Ben Kingsley che offre allo sguardo dello spettatore una recitazione astratta, direttamente legata alla dimensione oltreumana che accompagna la figura cinematografica del serial killer. Passando ai luoghi, la notte, la pioggia, il deserto ricorrente, la luce solare ancora legati a Seven o a Kalifornia, ecc. Ma il gioco potrebbe continuare, concentrandosi ora sui singoli gesti, ora sugli atteggiamenti o sulle battute del film (ritrovando anche riferimenti ai classici dell'espressionismo, come le inquadrature di spalle di Kingsley davanti alla finestra riprese direttamente da M di Lang). Ognuno degli elementi (potenziali riferimenti seriali) è, in  un certo senso, una variazione sullo stesso tema, una possibile moltiplicazione all'infinito del film. Mehrige, da questo punto di vista, ritorna su quanto già emerso in L'ombra del vampiro: il citazionismo non riporta all'origine, la ricostruzione del film (fosse anche il Nosferatu di Murnau) non è mai possibile, l'unica possibilità è quella di comprendere come la ripetizione non sia la ripresa, non consenta la riappropriazione delle immagini citate, ma solo la loro ripresentazione; è una struttura che consente di muoversi solo orizzontalmente –  lo si è detto – associazione dopo associazione, collegamento dopo collegamento.


Ecco come la struttura di Suspect Zero mostra la sua natura teorica. Tutti gli elementi sono come sospesi, congelati nella loro potenziale ripetibilità. La narrazione – pur macabra – non rivela elementi di novità particolari; tutto è allora immerso in un'atmosfera che sembra sottrarre al film linfa vitale, ma volutamente, intenzionalmente, come se il film volesse mostrare il suo lato vampiresco, ma quasi rovesciandone il senso (come in fondo ne L'ombra del vampiro, dove Max Schreck-Dafoe non è un attore che interpreta la parte di Nosferatu, ma è un vero vampiro).


Se il cinema è stato associato sin dalla nascita al vampiro, come conseguenza di un tema che ha ossessionato il XIX secolo  – l'arte come processo di vampirizzazione che assorbe la vita e la conservazione della vita al di là della morte – le forme vampiriche del cinema contemporaneo (come Suspect Zero) non assorbono semplicemente la vita, ma portano a compimento il processo assorbendo direttamente il cinema, vampirizzando nelle immagini altre immagini, altri film e corpi. Immagini che una volta assorbite perdono vita, si presentano già morte, come lo sguardo degli occhi senza palpebre dei cadaveri che attraversano il film. L'ossessione del film è allora quella di poter guardare nuovamente (pur manipolando il già visto): ossessione che rende corpo e forma attraverso la continua metaforizzazione dell'occhio: la ricorrenza dell'occhio nel film non è casuale: occhio vitreo, organo fisico e mentale, legame che cerca di guardare al di là della superficie del visibile (il detective che cerca l'assassino, quest'ultimo che lo visualizza, lo mette in scena), ma continuando a guardare lungo tale superficie, all'interno di tale orizzonte.


Proprio per questo motivo, Mehrige prova allora a rianimare i corpi, a tentare un'operazione di messa in scena rigorosamente slabbrata, senza (troppi) effetti gratuiti né (particolari) colpi di scena ad effetto. Il film lavora il clichè quindi, ma nel tentativo di svuotarlo, consapevole che lo sguardo non potrà mai più essere vergine, che il film (e lo spettatore) ha perso la sua innocenza; dunque ciò che rimane è non un cinema postmoderno, ma un cinema postumo, grado zero del genere: Suspect Zero colpisce infatti per l'abbandono dell'estetismo sterile di tanto cinema hollywoodiano contemporaneo, per il recupero del valore dell'inquadratura come durata, come evento, per quanto costruito e rielaborato esteticamente, e del movimento di macchina sporco (molte riprese "a spalla", raccordi quasi sgrammaticati accanto a cambi improvvisi di registro, di grana della pellicola, di viraggio del colore), pur dovendo contemporaneamente e necessariamente fare i conti con la memoria cinematografica del genere, con il già visto, con il clichè. Come se la libertà del filmare fosse ormai impossibile all'interno delle griglie di una memoria che non libera appunto, ma imprigiona lo sguardo. Posizione radicale (e discutibile), ma che indubbiamente rende questo piccolo oggetto un lavoro degno di interesse, una particolare interrogazione del cinema


 


Titolo originale: id.


Regia: E. E. Mehrige


Interpreti: Aaron Eckhart, Carrie-Anne Moss, Ben Kingsley, Julian Reyes, Frank Collison, Keith Campbell, Kevin Chamberlain, Chloe Russell


Distribuzione: Columbia Tristars Films Italia


Durata: 95'


Origine: USA, 2004


 

 

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