Il gusto del sakè, di Yasujiro Ozu

Quinto appuntamento con i capolavori di Ozu in sala per Tucker Film. Il gusto del sakè (ultimo film del Maestro) è una riflessione malinconica e ironica sulla disgregazione della famiglia giapponese

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Il rapporto tra genitore e figlia, che già era stato oggetto d’indagine in Tarda primavera e Tardo autunno, è la tematica trattata nell’ultimo film di Ozu, girato un anno prima della sua prematura morte. Il gusto del sakè è una riflessione, malinconica ed ironica allo stesso tempo, sulla disgregazione dell’unità familiare e, per estensione, dell’intera società giapponese, sempre più lontana dalla sua cultura tradizionale, e, soprattutto, sul rassegnato senso di solitudine che pervade la vita e diventa sempre più evidente avvicinandosi alla vecchiaia. In una rigida composizione formale, che nulla concede alla drammatizzazione della narrazione, contrassegnata dalla totale staticità dello sguardo, fissato come di consueto all’altezza di una persona seduta sul tatami, e dove ogni sequenza narrativa è segnata e delimitata dalla ripetizione del medesimo schema di piani e dalla medesima contrapposizione di interni ed esterni, Il gusto del sakè ritrae Shuhei Hirayama, ormai vedovo e giunto alla soglia della vecchiaia, nel processo che lo vede prima prendere coscienza dell’inevitabilità del distacco da sua figlia Michiko e quindi decidere di lasciarla libera di sposarsi.

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ozuIn una rasserenata e nostalgica accettazione, che trova la sua pace nella consapevolezza dell’ineluttabilità, Ozu fa filtrare, attraverso la rappresentazione del microcosmo in disgregazione in cui si muove Shuhei, un intero mondo sociale in radicale cambiamento, che va perdendo definitivamente la sua unità e si abbandona ad un etica materialistica, basata sul consumismo. La presa di coscienza della propria incapacità di ritagliarsi un ruolo ed essere partecipe del cambiamento che sta ridisegnando il volto e la cultura giapponese, è ribadita e resa estrema dal segmento narrativo occupato dal personaggio del vecchio maestro Sakuma, immagine del doppio possibile di Shuhei, confinato assieme alla figlia, che ha costretto a rimanere al suo fianco, in una triste solitudine ed incapace se non attraverso l’alcol di trovare un’effimera via di fuga. Il senso di perdita, vissuto con una «rassegnata tristezza», che pervade tutto il film e che riempie fisicamente lo spazio nell’ultima sequenza, non esplode emotivamente sullo schermo, ma rimane compresso, diventando infine condizione intima dello sguardo, nella frontalità della visione che continuamente risveglia l’occhio dall’illusione della finzione per coinvolgerlo in una più profonda partecipazione, nella unità stilistica in cui è il vuoto ad illuminare e riempire di significato l’edificio formale del film, nella costruzione ellittica della narrazione che elimina l’azione per concentrarsi, in una quotidianità discreta, sull’esperienza interiore, nella ripetizione uguale a se stessa, eppure impercettibilmente differente, dei piani e dei gesti.

 

Titolo originale: Sanma no aji
Regia: Yasujiro Ozu
Interpreti: Chishu Ryu; Shima Iwashita; Keiji Sada; Mariko Okada; Noriko Maki; Shinichirô Mikami; Nobuo Nakamura; Eijirô Tono
Distribuzione: Tucker Film
Origine: Giappone, 1962
Durata: 112′

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