Il Male dei ricci – Ragazzi di vita e altre visioni, di Fabrizio Gifuni
In un monologo febbrile, lucido e vitalistico Gifuni riporta in vita Pier Paolo Pasolini con una crestomazia dei suoi scritti e di stralci di Ragazzi di vita. Andando oltre la “cultura in scaffali”

La violenza dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini ha influenzato, almeno istituzionalmente, purtroppo molto del suo lascito artistico. Ad essere schiacciato in quel campo dell’Idroscalo di Ostia non è stato solo il suo corpo fisico ma anche quello culturale: la sua morte è, infatti, da decenni spesso usata come barbara chiave di lettura dei suoi scritti corsari. L’esiziale teleologia con cui si tende a inquadrare esistenze che non possono essere sminuzzate o compendiate per farle entrare, col dannato a posteriori, in “scaffali” di biblioteche accademiche, è una corrente di pensiero che però non appartiene, fortunatamente, a un interprete e regista come Fabrizio Gifuni che riporta in questi giorni al Teatro Vascello di Roma uno dei dittici più sorprendenti e riusciti degli ultimi anni. Il Male dei ricci – Ragazzi di vita e altre visioni e il suo gemello diverso Con il vostro irridente silenzio sono infatti gli esiti del lavoro compiuto da Gifuni da decenni – ‘Na specie de cadavere lunghissimo, lo spettacolo in cui affrontava per la prima volta la figura del regista de Il Vangelo secondo Matteo, è infatti del 2004 – attorno le figure di Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro. È proprio l’attore a spiegare con una specie di illuminante lectio magistralis nel prologo di questo primo spettacolo, Il male dei ricci, la catacombale volontà di riesumare quei due cadaveri eccellenti per farli dialogare in un accostamento, per usare un aggettivo molto caro allo scrittore friulano, eretico solo all’apparenza ma in realtà quantomai necessario in un’Italia che, come sempre nella Prima e nella Seconda Repubblica, si lava la coscienza dando la postura post-mortem da eroi a uomini e donne che ha martirizzato in vita: “Sono corpi, come tutti gli spettri, come tutti i fantasmi a cui non è stata degna sepoltura e che per questo tornano alle volte a disturbarci con la loro voce e con la loro presenza. È come se quei corpi fossero sempre rimasti lì ed è per questo che la cultura italiana, la società italiana, la politica italiana inciampa spesso su quei corpi storcendosi le caviglie“. Ecco allora che di fronte alla necessità di un compito improbo come questo, ideato per il centenario della nascita di PPP che ha visto la definitiva musealizzazione di un autore che Gifuni ricorda invece andrebbe discusso e perfino rifiutato in alcuni suoi esiti piuttosto che accettato acriticamente, Il Male dei ricci porta in scena una scelta personale della sua prolifica produzione, con estratti che vanno da Poesia in forma di rosa, Scritti corsari, Lettere luterane fino a la Seconda forma de La meglio gioventù.
Attraverso una messa in scena disadorna ma non spoglia, ecco allora che Gifuni caracolla in diversi punti del palco rinunciando a qualsiasi intermezzo musicale, sia d’accompagnamento che drammatico, e portandovi per quasi tutta l’ora e mezza di durata le parole dello scrittore friulano. Anche quelle più polemiche – come la splendida lettera aperta scritta nel 1974 sulle pagine di Paese Sera, vergata in risposta a Italo Calvino con cui si difendeva dall’accusa di rimpiangere l’Italietta “piccolo borghese, provinciale, ai margini della storia” – trovano la dignità della piena luce, tanto che l’interprete romano cerca apertamente lo sguardo e la risposta emotiva del pubblico in alcuni passaggi. Siamo quindi di fronte ad un Pasolini riletto sia testualmente che soprattutto corporalmente, con una mimica febbrile e sempre survoltata anche nei passaggi più scopertamente reading che si muove senza pace tra istituzionali leggii e sedie illuminate dove recitare gli a solo più drammatici. La forza del pensiero pasoliniano – sì, c’è il passaggio della mutazione antropologica che la società dei consumi ha saputo imporre ben più, parole dello stesso Gifuni che rimarca il suo calmo ma inscalfibile impegno civile, del “ventennale flagello fascista” – si specchia allora nella mercuriale voglia di vivere e muoversi che l’attore così ben rappresenta e che Ragazzi di vita, il vero centro di questo spettacolo, fa deflagrare in più punti. Proprio il romanzo pubblicato da Garzanti nel 1955 è il cuore della rappresentazione, argento vivo e scottante anche e soprattutto nei suoi stralci più violenti, come il pestaggio di Piattoletta ad opera del Begalone e dei suoi amici dell’infernale Pietralata o il passo in cui Pasolini con masochistica tenerezza/crudeltà descrive il suo protagonista come “un figlio di mignotta, capace di ammazzare un frocio per duemila lire“. Lo straordinario passo in cui il Riccetto porta a casa un signore napoletano per farsi insegnare il gioco delle tre carte o quello, altrettanto formidabile, in cui ebbro dei “cinquanta sacchi” rubati va con gli amici ad Ostia a copulare con la grassoccia Nadia, salvo venire ripulito dal malloppo dalla smagata prostituta, sembrano odierni spezzoni di quei periferia movie con cui il cinema italiano degli ultimi anni ha raggiunto i suoi vertici più interessanti. L’allarme del “genocidio culturale” che Pasolini temeva fortemente risuona forse meno apocalittico di cinquant’anni fa perché il “tecnofascismo” non ha annientato le forme culturali del proletariato e del sub-proletariato, bensì le ha cooptate al suo interno: Alì dagli occhi azzurri (citato nello spettacolo) vive ancora sulle nostre strade e sulle nostre stazioni, nonostante qualche modello di quartiere napoletano provi a rinchiuderlo in qualche carcere minorile. Il male dei ricci dimostra allora come l’idea del distopico processo alla DC su cui lo scrittore tornò più volte è il segno dell’ardore sociale che non temeva di mettere alla sbarra una classe dirigente, allora ed oggi, correa della mistificazioni delle classi meno abbienti e meno protette. Fabrizio Gifuni prende sulle sue spalle questa denuncia facendosi sofferto latore di un messaggio inattuale e necessario più di una rassegna svolta nelle stanze del Potere tanto aborrito e che trova la sua ragion d’essere in uno dei posti più al riparo dall’omologazione mediatica: il teatro